Chiesa dello Spirito Santo, Teramo, lunedì 15 ottobre 2001, ore 17:15
Il legno della bussola ha un tono caldo, ambrato. Passo dalla porta di destra. Nella penombra è in attesa un lieve sentore dolciastro. Lo avverto per pochi istanti, poi scompare. L’interno è deserto. Grigio-azzurro e oro. Non ho né freddo, né caldo. Sto bene con il golf che indosso. Tengo l’husky sul braccio. L’ambiente è compatto; appare quasi circolare, anche se è diviso in tre corte navate. A quelle laterali, molto più strette, si accede per tre archi, di ampiezza diseguale. Quello centrale è più ampio; il primo verso l’ingresso il più stretto. Alta sull’abside, una vetrata blu col disegno in bianco luminoso di una strana croce. Ha le braccia doppie come la lorenese, ma le punte sono a coda di rondine, come in quella di Malta. Due file di sei banchi ciascuna nella navata centrale; un’altra fila, stavolta di cinque banchi soli, attraversa l’arco di mezzo delle due navatelle e converge verso l’altare, la cui funzione di centro irradiatore viene esaltata da questo insieme di linee confluenti. Ad accentuare la sua centralità è anche la luce cadente dalla cupola che gli insiste sopra. L’altare ha l’ampio piano posato sopra un’alta base dorata, con larghi piedi, simili a zampe di leone. Sul pavimento c’è un vasto tappeto persiano, sui toni del rosso. Un grande crocifisso di legno è sospeso alla parete absidale. Il tabernacolo è nella parte superiore della navata di destra. Davanti ha un lungo inginocchiatoio. C’è una finestra, anche, chiusa da vetri opachi. Alle pareti, la Via Crucis, in quattordici quadretti dalle cornici dorate. Numeri romani in nero, sul lato superiore, scandiscono la successione delle scene. Il IX e l’XI sono invertiti, ma la scena incorniciata è quella giusta. Ci sono molte sedie moderne, qua e là. Hanno il sedile e la spalliera di stoffa marrone o blu, imbottita, e le gambe di metallo cromato. Mi siedo su una marrone, sistemata nel lato sinistro del presbiterio, accanto a una colonna. Sono abbastanza comodo. Lo schienale è forse un po’ basso, ma per qualche minuto credo di poter riposare. Il dolore alla schiena, infatti, si attenua fin quasi a scomparire. Da seduto, però, ho freddo. Metto l’husky sulle spalle. Sto meglio, e posso apprezzare il silenzio. Il mondo è fuori. Il mondo non esiste. Il tempo non esiste. Forse nemmeno io esisto, adesso che non ho più la compagnia del dolore. Poi arrivano delle voci. Vengono dalla strada. Sono puro suono: distinguo solo i diversi timbri: uomo, donna, bambino; non capisco cosa dicono. Altre voci, altri suoni, risate. Queste sembrano provenire dalla finestra accanto al tabernacolo. La chiesa è circondata da case, forse c’è un cortile, là dietro. La sedia comincia a sembrarmi scomoda, ho di nuovo un senso di tensione alle reni. Mi alzo. Faccio il giro delle navate, una, due volte. Sono sempre solo, posso aggirarmi indisturbato. Leggo le lapidi. Ce ne sono sette, sulle pareti; due hanno come incipit “Memoriae et quieti”. Guardo le porte chiuse. Sulla sinistra ce n’è una, bianca, che sembra blindata; ha una serratura moderna, di quelle strane. Accanto c’e una piccola statua bianca della Madonna, che alle spalle ha un’edicola azzurra, e davanti un inginocchiatoio. Sono nella navata centrale e guardo in alto, verso la cupola ellittica, quando accade. La porta sinistra della bussola si apre ed entra una donna bellissima, che io ammiro sopra ogni altra. Veste di nero, così come neri sono i suoi lunghi capelli. Mi sfiora con lo sguardo, forse mi riconosce, poi si dirige con decisione verso la statua della Madonna e le si inginocchia davanti. Mi siedo su un banco. Sono sorpreso, confuso. Per tutto il tempo in cui lei rimane raccolta in preghiera, la guardo, incapace di staccare gli occhi dalla sua figura. Dopo un po’ si alza e si dirige verso l’uscita. Anche stavolta i suoi occhi mi sfiorano, seppure per un tempo ancora più breve. Resto seduto sul banco a lungo. Sono emozionato. Cerco di interpretare il segno, ma ho paura di sperare. Una fitta alla schiena mi richiama alla realtà. Avverto all’improvviso tutta la scomodità del mio sedile. Mi alzo. Ancora voci da fuori. Forse è un richiamo. Esco, ma in strada non c’è nessuno.