La stufa si chiamava anche cucina economica. Stava al centro della parete di sinistra, entrando. Era tutta di ferro, smaltata di bianco. Il piano di ghisa era fatto di tanti cerchi via via più larghi. Quello centrale era un disco largo una decina di centimetri, con un buco al centro che serviva per infilarci il gancio dell’arnese usato per togliere i cerchi quando si doveva cucinare qualcosa. Era una specie di corta spada, con la lama fatta da un tondino d’acciaio e il manico a spirale. Si toglievano più o meno cerchi a seconda di quanto era grande la pentola. Sulla destra c’era il contenitore per l’acqua calda, una specie di pentola rettangolare, tutta cromata. Il coperchio aveva una maniglia che restava sempre fredda. La pentola sembrava posata sul piano, ma in realtà aveva una parte nascosta che sprofondava nel corpo della stufa. Quando mamma la tirava fuori, era tutta nera di fuliggine. La legna si infilava da uno sportello sul davanti. Quella per la stufa si comprava a parte. Erano sempre ciocchi di quercia e faggio mischiati, ma tagliati più piccoli. Di fianco allo sportello per la legna c’era quello del forno, e sotto il raccoglitore per la cenere, che serviva per il bucato e per concimare i vasi di fiori sulla terrazza. Il tubo che portava via il fumo, dipinto di grigio argento, all’inizio era verticale, e puntava deciso verso il soffitto. A circa un metro d’altezza era circondato da un collare dal quale pendevano sottili asticciole cromate. Si potevano alzare e una volta fermate negli appositi incavi servivano per appendere i panni ad asciugarsi. Un po’ più su il tubo piegava verso destra e proseguiva orizzontale fino a infilarsi nella grande cappa del camino. Attraversando mezza cucina, aiutava a riscaldarla.