Domande su Desideri – 2005

Cop Des

Di Roberto Michilli, abruzzese di Campli – un’appartenenza esibita orgogliosamente -, intellettuale schivo e riservato, si conoscevano già le raccolte  di liriche e di racconti, che pur gli hanno procurato premi e  riconoscimenti;  è stato tuttavia il successo della sua ultima opera, “Desideri”, il coinvolgente romanzo, definito “giallo psicologico”,  pubblicato  dall’editore  Fernandel,   a risvegliare il vivace interesse del pubblico e della critica,  e a costringere  lo scrittore  ad uscire dal suo guscio di  discrezione.

 

Roberto Michilli, anni fa lei si è affacciato al mondo letterario con alcuni libri di versi. È corretto chiederle se  per lei “in principio fu la poesia” ?

In principio, a dire il vero, fu il diario. Ho cominciato scrivendo delle note che riguardavano le mie letture, i film che avevo visto, i concerti e le rappresentazioni teatrali alle quali avevo assistito, qui a Teramo e soprattutto a Roma e  a L’Aquila, città nelle quali ho vissuto per lavoro tra la fine degli anni settanta e la seconda metà degli ottanta. A queste annotazioni si sono in seguito aggiunti ricordi, qualche verso e anche idee e abbozzi per possibili storie. Per molto tempo tutto è restato a questo livello, finché nel 1989 un incidente  ha cambiato la mia vita. Sono stato costretto a rinunciare a molte cose che amavo, come l’alpinismo, lo sci e l’equitazione, e a condurre una vita più tranquilla. E’ stato allora che sono ritornato a quel mio journal e ho cominciato a sviluppare alcune delle idee lì annotate. Il mio primo racconto è infatti di quell’anno e anche le prime poesie risalgono a quella data. Le due cose sono andate poi avanti di pari passo, anche se la narrativa ha sempre avuto una parte preponderante.

 

Erano, peraltro, versi molto belli e molto lodati. Pontiggia le scrisse:  “…c’è una verità, in quello che scrivi, e un senso malinconico e nitido della bellezza che rimangono nella memoria”. Ecco, vorrei anch’io porre l’accento sulla malinconia che intesseva ogni suo verso, e  che il professor Ezio Sciarra definiva “una concezione dolente e alienante”. Erano sentimenti, emozioni, rimpianti che appartenevano a un periodo ben definito e circoscritto della sua vita ?

Malinconia e disincanto costituiscono la base del mio atteggiamento nei confronti dell’esistenza, non direi perciò che sono legati a momenti particolari.

 

Dopo le poesie – o contemporaneamente a queste – è arrivata la stagione dei racconti: che cosa la sollecitava a una  forma di espressione così diversa, a passare dalla  verticalità della lirica al respiro ampio e disteso del racconto ?

Come le dicevo, per quanto mi riguarda le due cose sono sempre andate avanti in parallelo. Con la differenza sostanziale che nella narrativa seguivo una sorta di progetto, e pertanto mi ci dedicavo con maggiore impegno e continuità. Guardando le cose in retrospettiva, credo di poter dire che la poesia mi è servita per “vuotare la sentina” da un eccesso di lirismo che avrebbe potuto inquinare altre scritture. Il lirismo in poesia mi piace. Forse non è più di moda, ma a me piace lo stesso. Nella narrativa, invece, mi sforzo di scrivere in modo sobrio e chiaro.

 

Lo stacco fra quello che ha scritto per tanti anni e  questo suo recente romanzo “Desideri”,  appare netto, abissale: ha sortito l’ effetto di una piccola deflagrazione, spiazzando tutti coloro che avevano letto i suoi libri precedenti. Si è trattato di una cesura meditata, voluta,  oppure, per dirla con Pirandello, ad un certo punto i personaggi hanno cominciato a vivere di vita propria, al di là delle sue stesse  intenzioni?

Questo sarebbe auspicabile sempre, perché così i personaggi risulteranno vivi e vitali e non fatti solo di parole. Nel mio caso, però, credo che lo stacco di cui lei parla dipenda soprattutto dalla circostanza che finora ho potuto pubblicare solo una minima parte di quanto ho scritto. Tra i racconti pubblicati da un lato e Desideri dall’altro esiste tutta una serie di testi ancora inediti,  che nel loro insieme potrebbero forse delineare una evoluzione dei temi e dello stile e rendere meno evidente la cesura.

 

Nel romanzo s’intrecciano quattro storie: i protagonisti sono persone senza problemi economici, del tipo “hanno tutto per essere felici”;  invece non lo sono, desiderano altro,  qualcosa o qualcuno, e, pur di ottenerlo, si  lasciano trascinare in comportamenti azzardati, rischiosi,  fuori dalla norma, dalle regole. Per quasi tutti, l’appagamento  ha esiti imprevisti e, in tre storie, addirittura tragici, come nei più classici “noir”.  Tali soluzioni risultano tanto più sorprendenti, quanto più il tono del narrare  è invece  leggero, comprensivo, venato di sottile ironia. La sua pare una visione priva  di moralismi, di pronunciate condanne; eppure risulta percorsa da  profonda disillusione e da lucida amarezza. È d’accordo ?

Ho scelto di prendere a protagonisti persone normali, che non hanno alcun carattere di eccezionalità. Ho cercato di coglierle in un momento critico della loro esistenza, rifuggendo però da tragedie di ogni tipo e altri facili effetti del genere. I personaggi  arrivano a questo momento di svolta partendo da posizioni di assoluta tranquillità materiale e psicologica; sono cioè presi al meglio delle loro possibilità. Un uomo è messo davvero di fronte al proprio essere solo se ha risolto i problemi materiali dell’esistenza, se è libero dalla fame e dalla sete, se può vestirsi decentemente e ha un tetto sopra la testa. Solo da questa posizione diventa individuo e può confrontarsi dignitosamente con se stesso e con il mondo. A questo punto però non ha più scuse né alibi. Se  vede attorno a sé il vuoto, è perché questo vuoto lo ha anche dentro. E il desiderio, la qualità del desiderio, qui diventa rivelatore, si fa specchio e confine. Noi che viviamo nelle opulente società occidentali siamo dei privilegiati, dovremmo diventare perciò più generosi e più giusti, e desiderare magari qualcosa che non riguardi sempre e soltanto noi stessi o la ristretta cerchia delle persone care. Ma questo sguardo affettuoso e partecipe sugli altri e sul mondo mi sembra ancora ben lontano dall’appartenerci.

 

In una sua nota finale, lei spiega che lo schema secondo cui le storie s’intrecciano è quello del madrigale: allettante chiave di lettura, che ha suggerito al giovane musicista Enrico Melozzi la composizione di una suite ispirata al romanzo. Come nasce concretamente la collaborazione fra uno scrittore e un musicista?

Premetto che trovo molto stimolante collaborare con artisti impegnati in  ambiti di ricerca diversi dal mio. Ho così realizzato un calendario insieme a un fotografo, ho lavorato con una scuola di teatro per bambini scrivendo i testi e adattandoli poi man mano che la messa in scena andava avanti, e, appunto, ho avuto un lungo sodalizio col maestro Melozzi. In questo caso entravano in gioco anche il mio profondo interesse per la musica, nonché  l’affetto e la stima che mi legavano al giovane Melozzi. E’ stato lui, nel 1998, a propormi di scrivere una favola  che avesse come obiettivo quello di avvicinare i bambini delle elementari alla musica colta. E’ nato così Il grande abete rosso, che ha richiesto un lavoro lungo e non facile di integrazione tra testo e musica e poi di messa a punto con la voce recitante e l’orchestra. Ci proponevamo infatti di dar vita non a un semplice racconto con accompagnamento musicale, quanto piuttosto a un lavoro organico in cui parole e note si compenetrassero per raggiungere un comune fine espressivo. A giudicare dall’interesse con cui centinaia di bambini hanno seguito negli anni la favola, forse ci siamo riusciti. Anche le esecuzioni in forma di concerto tenute nei teatri e nelle piazze sono state bene accolte. Nel 2003 il M° Melozzi ha poi scritto 3+3, una suite per pianoforte preparato e orchestra d’archi basata su una serie di miei frammenti poetici, e infine nel 2005 ha composto Ride-Side, una suite ispirata al mio romanzo (Ride-Side è l’anagramma di Desideri), che è costata molto lavoro anche a me, visto che ho dovuto scrivere ex-novo quasi tutti i testi utilizzati nel corso dell’esecuzione.

 

Due curiosità. La prima:  in una delle storie, situazioni e linguaggio sono, come dire?, piuttosto espliciti, sfiorano l’ hard. Non ha avuto alcun tipo d’imbarazzo? 

Non durante la stesura. In quella fase mi preoccupo solo della coerenza interna della storia, e nel caso di Deborah mi sembrava che certe situazioni andassero raccontate in modo esplicito, dato il carattere grottesco e i toni caricati della vicenda. Non potevo limitarmi a scrivere che il protagonista, pur di ottenere quello che voleva, era disposto a tutto. Non è così che funziona la narrativa. Le cose bisogna farle vedere, e lasciare poi che i giudizi morali sia il lettore a trarli, se vuole. A libro finito ho comunque sottoposto il manoscritto ad alcune persone di fiducia, che non hanno manifestato perplessità sul modo in cui quelle scene erano rese, reagendo in molti casi con quella risata che io mi auspicavo di suscitare. Anche il mio editore mi ha rassicurato. Mi ero dichiarato disponibile a emendare quelle parti qualora le avesse ritenute troppo “forti”, ma mi ha risposto che la storia stava bene così com’era. Mi risulta che anche i lettori del libro hanno colto il carattere funzionale di certe scene e l’assenza d’ogni compiacimento nella narrazione. In fondo Deborah è un “racconto morale”. Come e più delle altre storie che compongono il libro, parla di un mondo in cui esistono solo i desideri mentre tutti i valori si sono dissolti, un mondo nel quale il principio etico fondamentale recita: “È Bene ciò che è buono per me”, e quindi tutto è permesso.

 

La seconda: lei ha ambientato le sue inquietanti storie in una città di provincia di medie dimensioni, innominata ma riconoscibilissima, Teramo, così come sono riconoscibili la costa, i paesaggi abruzzesi. Avrebbe potuto scegliere un territorio neutro; invece  ha optato per una dimensione che le è vicina. È stata soltanto questa familiarità a ispirare la sua scelta? 

E’ Teramo e nello stesso tempo non lo è; così come il paese in cui si svolge in parte la vicenda di Elio è la mia Campli ma è anche qualcosa di diverso. Quasi tutte le mie storie hanno come sfondo i luoghi a me più cari della mia terra d’origine, questo angolo d’Abruzzo al quale sono visceralmente legato. Non solo Teramo e Campli, quindi, ma anche le cittadine della costa, con una particolare predilezione per Giulianova, e tante zone dell’adorato Gran Sasso, con i Prati di Tivo in testa. Ma tutte queste località ho cercato di trasfigurarle in modo da farne un territorio mitico, che richiami quello reale ma nello stesso tempo ne costituisca una sublimazione. Un po’ come hanno fatto, si parva licet, William Faulkner con la contea di Yoknapatawpha e Thomas Hardy con il Wessex.

Aprile

balavil_apr

 

Carciofaio e germinale

         

Il giorno

1

il sole si leva alle

5.43

e tramonta alle

18.26

11

5.26

18.37

21

5.10

18.48

Dal 1° al 30 la durata del giorno aumenta di 1 ora e 18 minuti.

 Alle 20.40 del giorno 19 il sole esce dalla costellazione dell’Ariete ed entra in quella del Toro.

Nei campi si approfitta dei giorni senza vento per diserbare il grano. Si diserbano anche bietole, patate, canapa. Si seminano  granoturco, soia, girasole, riso,  patate (in montagna), barbabietole da foraggio. Nel frutteto si esegue il trattamento con poltiglia bordolese al 2,5% per distruggere gli agenti infettivi che hanno svernato sulle piante. Si taglia l’erba sotto gli alberi e se ne imbiancano di calce i fusti. Nell’orto, a fine mese, vengono seminati basilico, cetrioli, fagioli, peperoni, pomodori, sedano, zucche, zucchini. Pomodori e fagioli, se piantati a file alterne, si proteggono a vicenda dalla mosca. Dopo la semina, si zappetta il terreno tra le file e si esegue poi la pacciamatura, ricoprendolo con paglia.

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Dal “Trattatello agrario-igienico ad uso delle scuole popolari d’Italia”
del sacerdote don Vincenzo Angelici
stampato presso la Tipo-litografia di Luigi Cardi di Ascoli Piceno nel 1885

DELLA RUGIADA (Capo quinto; § 2):

    250. La rugiada è vapore acqueo, condensato a mo’ di goccioline, che si mostra sulla superficie della terra e sulle foglie delle piante.

251. Il calore de’ corpi, dal tramonto al sorgere del sole, diminuisce per irradiazione verso gli spazi celesti; e l’umidità che da essi si evapora in tal tempo, si condensa sulla loro superficie in goccioline cui si dà il nome di rugiada.

256. La rugiada si mostra sempre in quantità maggiore sopra que’ corpi che più presto si raffreddano; e son tali quelli, in cui è più grande la proprietà di emettere il calore.

257. Tale proprietà è maggiore ne’ vegetali, che nella terra; nella sabbia, che nella terra compatta; nel vetro, che ne’ metalli; nelle vesti di lino e canapa, che in quelle di lana ecc.

258. E’ per questa ragione, che le foglie di alcune piante si veggono spesse irrorate d’una quantità maggiore di rugiada, e sopra quelle de’ cavoli, qualche volta la è tanta da scorrere a mo’ di rivoletto.

259. Si ha, d’ordinario, maggior copia di rugiada: 1° dopo una pioggia che ha prodotto molt’umido nella terra, se è seguita da calde giornate; 2° in estate e autunno, quando al molto calore del giorno tien dietro una notte calma e serena.

260. E’ la rugiada oltre modo vantaggiosa all’agricoltura, perchè, mediante il suo  umidore, favorisce la formazione della linfa e la nutrizione delle piante, e perchè accresce la fertilità del terreno col trasportarvi de’ gas ammoniacali e dell’acido azotico.

261. Torna però qualche volta nociva alle piante. In fatti le goccioline di rugiada, che sono sulle foglie del gelso, allorchè leva il sole, concentrano su di sè i raggi di quell’astro in modo, che i pezzettini di foglie, sottoposti, divengono giallo-rossigni: è desso il marino, malattia del gelso, tanto nocevole a’ filugelli.

266. La rugiada, in ispecie quella cui dà il vapore atmosferico, torna sovente insalubre e perniciosa agli uomini e alle bestie che si cibano de’ vegetali, mentre ne sono irrorati.

267. Nel formarsi della rugiada molti atomi  nocivi e, spesso, mortiferi, nuotanti per l’aria atmosferica, vengono attratti dalle nascenti goccioline e moltissimi trasportati da esse nella loro caduta sopra la terra: da qui la sua insalubrità.

269. […] la foglia dei gelsi e i frutti degli altri vegetali non dovrebbero esser colti al mattino, se non dopo  che l’azione calorifera del sole ne ha evaporata la rugiada e di nuovo volatilizzatine i corpuscoli; o pure converrebbe esporli per qualche tempo alla provvida azione dell’aria e del calore solare.

273. Tra i molti corpuscoli che trae seco la rugiada, v’ha de’ semi microscopici, di pianticelle ancor esse microscopiche, della specie de’ funghi, delle alghe ecc., sparsi per l’aria, i quali, nocevolissimi di lor natura, tornano funesti all’organismo animale nel momento della loro riproduzione.

274. Secondo il  chiarissimo A. Selmi detti semi, in ispecie, quelli dell’alga febbrifera o  virgiliana, da lui scoperta, i quali or più or meno abbondano nell’atmosfera de’ luoghi paludosi, formano i miasmi.

275. Possono essi semi vegetare, perchè vi trovano alimento, persino dentro il corpo dell’uomo, in cui poi  cagionano, nel tempo della loro riproduzione e vegetazione, febbri periodiche, perniciose e persino la cachessia palustre.

276. A’ miasmi in vicinanza di paludi, risaie acque stagnanti, letamai, gorghi maceratoi ecc., si aggiungono gli  effluvii di sostanze vegeto-animali, per lo più in putrefazione, e che pure son detti miasmi.

277. Quest’altra specie di miasmi rende anche per sua natura oltre modo malsana l’aria atmosferica; e però non è cosa che faccia alla salute il soggiornare e, molto meno, il dimorare là dove sono, o possono essere esalazioni tanto perniciose.

278. E’ un buon mezzo, per preservarne in qualche modo la salute, l’indossare camicie di lana sulla pelle, e coprire la persona con vesti di lino o canapa; perocchè queste sono poco assorbenti, e la lana, qual cattivo conduttore del calore, mantenendo una specie di eccitamento continuo sulla pelle, non permette al sudore d’essere riassorbito.

279. Perchè la rugiada sia di giovamento alle piante, un buon coltivatore deve usare dopo il tramonto del sole le zappature o triturazioni del terreno altrove ricordate; perocchè la terra, ridotta quasi in polvere, si mostra assai adatta ad assorbirla.

280. Tale espediente, usato nella coltivazione della vite, fa accrescere e, spesso, duplicare il ricolto del mosto. Da qui il proverbio: Chi zappa la vite d’agosto, la cantina riempie di mosto.

281. Non sono opera della rugiada que’ granellini fitti e di sapore dolcigno, appellati manna, che si vedono talvolta sopra le foglie di talune piante arboree come i tigli; ma vi sono lasciati da certi piccolissimi insetti, detti afidi o moscherini, durante la primavera o l’autunno.

282. Detta manna, di cui sono ghiottissime le api e le formiche che a grandi torme vi accorrono per cibarsene, nuocerebbe non poco alle piante, impedendone la respirazione e la nutrizione, se vi dovesse restare a lungo.

283. Oh quanto è grande la Sapienza e Bontà del nostro Dio! Que’ moscherini col lasciare sulle foglie degli alberi la loro manna operano secondo l’istinto di lor natura, e intanto apprestano un buon cibo ad altri animaluzzi senza numero, i quali cibandosene, liberano le piante da una pericolosa copertura.

 

DELLA BRINA (capo quinto; § 4):

    300. La brina è la rugiada stessa trasformata in ghiaccio per lo scemato calore de’ corpi, su cui essa si  mostra. Allo spuntare del giorno, bene spesso, copre le piante erbacee e i campi di un candidissimo strato.

301. La brina si ha nelle notti calme e serene, in cui la temperatura dell’atmosfera si raffredda tanto da far scendere a zero il mercurio nel termometro.

302. Dopo il tramonto del sole l’irradiamento del calore dalla terra e dalle piante non essendo compensato da’ raggi solari, cagiona un abbassamento di temperatura, che quando è sereno, fa trasformare in brina la rugiada.

303. Nelle notti nuvolose non si forma la brina, perché le nubi, a guisa di altrettanti specchi, rimandano verso terra il calore, e insieme impediscono che molto se ne irradi dalla superficie de’ corpi.

304. Gli stessi fiumi che nelle notti serene del verno gelano, quando il termometro segna due o tre gradi sotto dello zero, nelle nuvolose continuano a scorrere anche a quattro.

305. A prevenire i tristi effetti che le brine cagionano nelle parti tenerelle de’ vegetali gelandone i succhi, è mestiere coprirli di tela, foglie, paglia, giunchi ecc., perocché un riparo qualunque è sufficiente a impedire la irradiazione del calore e l’agghiacciamento de’ succhi.

306. Gli Africani del nord e i coltivatori di alcune contrade d’Italia, quando temono che la rugiada possa gelare, usano con grande vantaggio di formare una nuvola di fumo caldetto attorno alle piante bruciando in loro vicinanza della paglia o di checchessia altro, che faccia assai fumo.

307. L’aria atmosferica, resa per tal modo più calda della terra e delle piante circostanti, non sottrae da esse il calore; e però nè pure fa gelare la rugiada, di che sono cosperse.