Consigli di un Maestro ai poeti e aspiranti tali di ogni età.
Giovanni Giudici (1924-2011)
Da Andare in Cina a piedi – Racconto sulla poesia (Edizioni e/o, 1992).
In tanti anni che scrivo versi o vengo richiesto di giudizi su versi altrui, penso di essere giunto quanto meno al sospetto di alcune trappole evitabili con un minimo d’attenzione. Sono riuscito a maturare una marcata diffidenza per i verbi al tempo futuro: dal momento, oltre tutto, che non possiamo sapere come il futuro sia per essere e che, di conseguenza, ogni verbo al futuro finisce per avere come referente un qualcosa che non esiste. Uguale diffidenza nutro per certe parole a effetto (schianto, strazio, graffiante, ecc.) e per i sentimenti gridati. Vi è in questi e in quelle una pretesa di espressività che mal nasconde una reale condizione di insolvenza espressiva: sicché vanno quasi fatalmente in protesto come cambiali truffaldine, vogliono dire troppo e non dicono niente. Molta cautela ho imparato a usare verso parole drammaticamente definitive (niente, tutto, vita, morte, sempre, mai e simili), il cui abuso può non di rado sortire effetti semanticamente alienanti, dove un tutto diventa un niente. Al contrario, tendo adesso ad accordare preferenza a termini di tono medio (a un turbato, ad esempio, più che a uno sconvolto): pretendere troppo dalle parole è pericoloso, c’è il rischio di farle scoppiare come bolle di sapone. Ciò non esclude il ricorso a parole inusitate, quando l’intento sia di usarne la “stranezza”; o, invece, alle parole più disarmate e usuali. E ho già detto del non doversi insistere nell’inserire a tutti i costi in un poema un’immagine o idea che tanto ci piacerebbe e che però non c’entra. In Salutz, certi “treni” approdanti parallelamente a una stazione fui costretto, a suo tempo, a farli sparire: a rifiutarli era proprio il testo, che poi si sarebbe svolto su un’immagine (invece) di “… barche d’errabonda schiera / Che un medesimo porto a sera unisce”.
Non negherò un qualche mio debole per procedimenti retorici come l’allitterazione, la litote, l’anastrofe, il chiasmo o altri dai nomi che non sto a dire: a patto però che vengan fuori quasi da sé, emergendo dal pozzo di miniera della lingua e non dovendo io dargli che una lieve spinta. La retorica non è un sistema di regole astratte, ma codificazioni di procedimenti nati dall’esperienza e riconosciuti di volta in volta come i più efficaci e forse connaturati ai modi del nostro intelletto, spontanei e naturali né più né meno che i modi di certi esercizi fisici quali il nuoto o la danza. Ragione per cui, leggo nell’aureo manuale di Lausberg, “se il filologo dichiara… che in una poesia questo o quel fenomeno appartiene alla ‘retorica’, non è detto che il poeta, componendola, abbia realmente pensato a quel fenomeno retorico”. Io stesso mi sono accorto solo recentemente che (sempre in Salutz) il verso “Ultime mie vilissime monete” deve non poco all’effetto allitterativo di tutte quelle m e di quelle e, combinato con la distribuzione degli accenti forti che scandiscono le due parole sdrucciole ùltime e vilìssime, intervallate dalla quasi monosillabica mie e seguite dalla piana monéte su cui si distende la clausola. Ma non posso davvero dire di aver pensato a tutte queste cose al momento in cui scrissi il verso: mi sonava bene, corrispondeva alla mia intenzione, e basta. La retorica non precede, ma segue, la scrittura.
Consiglierei poi, in linea di massima, di evitare (se esso non abbia una sua precisa funzione divaricatrice tra ordine logico e ordine metrico) anche il vecchio enjambement: altrimenti l’onesto lettore avrà tutto il diritto di supporre che l’autore sia andato a capo perché nel verso precedente gli cresceva una parola (e, in effetti, è frequente il caso di enjambement del tutto gratuiti). Sarei inoltre estremamente parsimonioso nell’uso dei relativi: possono condurre a gineprai che molto disturbano la necessaria apparente naturalezza del discorso poetico; così valga per il disgiuntivo o: quando non usato con valore alternativo (o bianco o nero, o aggòtta o annega), allenta la tensione del verso. Meglio tenere il piede in una sola staffa. Quanto agli avversativi (ma, invece, tuttavia, ecc.) sarà bene non abusarne, resistendo alla tentazione di voler drammatizzare il testo con effetti di un contrasto che magari non sussiste.
Infine mi guarderò dal troppo voler far quadrare e troppo specificare: un eccessivo rispetto formale per la sintassi potrebbe tradursi, poeticamente, anche in una trappola. Se certe cose non riescono a spiegarsi da sé, qualcosa certamente non va; e mi guarderò anche dal ripetere (se non deliberatamente) una medesima parola nel raggio di almeno venti versi, ecc.