Fabio Brotto sulla Leggenda di San Giuliano

FABIO BROTTO·MERCOLEDÌ 27 MARZO 2019

PICCOLA NOTA su LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO L’OSPITALIERE di Gustave Flaubert, traduzione e cura di Roberto Michilli.

Non inganni il titolo, questa pubblicata da Di Felice nel 2019 è un’opera di ampie proporzioni (483 pagine) che presenta all’inizio la traduzione del racconto flaubertiano (nuova, accuratissima, dello stesso Michilli) con testo a fronte, e poi un esame molto approfondito dello stesso, supportato da una grande mole di letture critiche e di citazioni degli interpreti che nel corso dei decenni si sono cimentati con la Légende, dei quali sono riportati molti passi rilevanti.

Mi sento di ripetere qui le parole che scrissi dopo la lettura de Il prigioniero, il libro di Michilli sul poeta russo Lermontov: l’analisi critica è evidentemente animata e sospinta da un lungo amore, da una fortissima passione. In questo caso traspaiono forse alcuni segni di vera e propria identificazione, tanta è la forza intellettuale riversata nello scavo delle radici da cui è scaturito il Julien. Il lettore ne è catturato.

Non riassumo la notissima vicenda, limitandomi a due aspetti, quelli che mi hanno fatto pensare. In primo luogo, Giuliano compie l’atto più tremendo che un essere umano possa compiere, uccide il padre e la madre. In secondo luogo, prima di compiere quell’atto, Giuliano appare come un cacciatore. Ma non è, a mio parere, assoggettabile ad una lettura freudiana, lacaniana, ecc. (ovvero lo è, lo è massicciamente stato, dati il prestigio e lo spazio che la cultura occidentale ha assegnato alla psicoanalisi, che è un complesso articolato e autorigenerantesi, come l’Idra, di mitologie ˗ e anche Michilli segue questa strada); e, d’altra parte, Giuliano non è affatto un cacciatore, ma un’altra cosa. Mi pare che il punto sia sfiorato a p. 301, dove Michilli chiama in causa Aimée Israel Pelletier, che ha visto come la caccia come la intende e pratica Julien sia una attività radicalmente antisociale. La caccia autentica invece è, fin dal suo sorgere agli albori dell’umanità, l’attività più radicalmente sociale. Da essa scaturiva il cibo per il gruppo umano, ma anche la cooperazione del sotto-gruppo dei cacciatori, con la seguente celebrazione narrativa delle imprese. La socialità della caccia è evidente anche quando il cacciatore agisce da solo: sia che miri al trofeo, sia che aspiri a procurare il necessario per una ricca cena, il cacciatore pensa sempre anche a quello che seguirà all’atto della caccia, e quello che seguirà è sempre sociale. La caccia, a differenza di quel che pensano gli animalisti, non è l’atto di uccidere un animale, altrimenti anche il macellaio sarebbe un cacciatore. Nella caccia, l’uccisione può anche mancare, perché la sua parte fondamentale è la ricerca e l’individuazione della preda. Il cacciatore si diverte anche se l’animale viene catturato vivo, o anche lasciato fuggire dopo averlo trovato. Vale anche nella pesca, con la pratica del catch and release. In ogni caso, la caccia è essenzialmente sociale. Giuliano invece caccia da solo. Ma caccia davvero? A parte il sostanziale irrealismo delle descrizioni flaubertiane dell’azione di caccia di Giuliano, da un lato è evidente che non di caccia si tratta, anche in un ambiente onirico, perché vi manca totalmente la parte fondamentale, ovvero la ricerca della selvaggina, perché essa qui si offre in abbondanza, cioè si offre a Giuliano; dall’altro vi è solo il massacro, e i corpi degli animali restano sul terreno, addirittura a mucchi. Inoltre c’è piena evidenza del fatto che non si tratta di veri animali, ma di umani travestiti da animali, come nelle fiabe: la con-fusione è totale. Ciò che accade è violenza indifferenziata scatenata, senza limite e misura, ovvero il caos. Altro che caccia! Qui, in forma di delirio paranoico, si mostra cosa comporta la violenza scatenata: il caos. Saltano le differenze: tutte, quelle tra padre e figlio, tra uomo e animale, tra vecchio e giovane, tra reale e irreale, tra vivo e cadavere.

Veniamo al parricidio. Mi pare evidente la profonda differenza tra il testo flaubertiano e tutte le opere che normalmente la critica richiama per evocare e indagare la problematica del rapporto al Padre di origine freudiana, a iniziare dalla celebre Lettera di Kafka. In tutti quei testi la figura del padre appare come quella di un uomo forte, che schiaccia il figlio e gli impedisce l’accesso alla virilità, generando quella catena di “castrazione”, senso di colpa, ecc., con cui la psicoanalisi da più di un secolo affligge l’Occidente (che questo sia di ogni padre reale è più che dubbio, ma si sa che, come tra gli altri ha sostenuto Hans Blumenberg, la psicoanalisi è nata per estensione del dato estratto dalla psicopatologia all’interezza dell’umano, e questa è la tabe che la mina). Ma il padre di Giuliano è un padre forte, è una pienezza che rende vuoto il figlio? No, secondo me questo padre pacifico (che fu guerriero un tempo, ma forse ciò è falso) non è un pieno, ma un vuoto. E un vuoto non può fornire al figlio nulla che faccia scattare l’imitazione. Infatti Giuliano non vuole essere come il padre, e meno che meno desidera la madre, quella specie di monaca. Il padre è vuoto e fallisce in questo: non ha nemici e non può consegnare al figlio un Nemico. Per questo, la carica di violenza latente in ogni umano nel protagonista del racconto flaubertiano non trova alcuno sfogo e cresce a dismisura, fino alle sue esplosioni oniriche. Qui il sesso non c’entra molto. Manca la figura del Nemico, o dei nemici, manca l’altro-nemico che consente quella che io chiamo l’autoidentificazione agonistica, fondamentale anche in una società feudale immaginaria. Ma, oltre al Nemico, manca a Giuliano l’altra figura che potrebbe innervare il racconto, e la definizione della sua personalità: il Rivale. La bellissima fanciulla che l’Imperatore gli dà in moglie non è oggetto della brama di un altro, non vi è alcuno che, desiderandola si opponga a Giuliano: essa quasi scende dal cielo, pur apparendo femmina concupiscibile. Dunque, il padre è un vuoto, e lo stesso omicidio avviene, per quanto sia descritto nella sua fisicità, nell’assenza di qualsiasi forza attribuibile al padre. Non è un potente come Laio che qui viene assassinato, ma un vecchio impotente e stremato, insieme alla stremata vecchia madre di Giuliano. Viene ucciso, essendo scambiato per il Rivale che non c’è, colui che è la causa di questa assenza.

Questo è un pensiero ancora grezzo. Ringrazio Roberto Michilli per avermelo fatto pensare.

Perché questo libro

Questo libro vuole coinvolgere il lettore nel tentativo di risolvere un mistero: perché uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi si porta dentro una storia per quarant’anni e passa, prova due volte a  scriverla ma poi lascia perdere e si decide infine a farlo davvero nel momento peggiore della sua vita? Perché in un momento così difficile per lui, sceglie di mettersi a scrivere proprio questo racconto?

Non solo: come può lo stesso scrittore, il più lontano da ogni forma di improvvisazione, abituato a documentarsi in modo persino esagerato sul soggetto che ha scelto, e poi a progettare l’opera fin nei più minuti dettagli e a lavorare nel suo amato studio circondato dai suoi libri, dai suoi appunti e dagli oggetti che gli sono cari, mettersi a scriverla in una stanza d’albergo in un paesino bretone affacciato sull’Atlantico, avendo con sé solo la penna, l’inchiostro e la carta?

E ancora: perché durante la stesura Gustave Flaubert si riferisce alla Leggenda parlandone come di una cosa da niente? «Non è niente di niente e non le attribuisco alcuna importanza»; «una sciocchezzuola medievale»; «una piccola stupidaggine, di cui la madre potrà permettere la lettura alla figlia»; «la mia piccola storiella (religioso-poetica e medievalmente rococò)»; «quest’opera edificante, che mi farà passare per “volgere al clericalismo”.» Non sarà che ne minimizza l’importanza per dissimulare il ruolo capitale rivestito invece per lui da questo racconto?

E infine: cosa c’è in questa storia del santo parricida che possa riguardare  Flaubert? Deve trattarsi di qualcosa alla quale lui attribuisce una eccezionale importanza, e deve aver pensato che è arrivato il momento di raccontarla perché si sente vicino alla fine e vuole finalmente liberarsi di questo grave peso. Flaubert è tutti i suoi personaggi, ma forse in Julien c’è di lui più che in tutti gli altri, e magari la sua storia è per molti aspetti anche quella del suo autore. Forse nell’interesse precoce e duraturo di Flaubert per la storia di Giuliano, c’è il segno di una analogia profonda, però censurata, respinta nelle profondità dell’inconscio. E il racconto impersonale della vita del santo potrebbe offrire allora allo scrittore la maschera più sicura per esprimere le sue ossessioni più personali.

Ma è così? Il libro invita il lettore curioso e appassionato di misteri a cercare da solo le risposte a queste e altre domande. Per aiutarlo, gli offre le risposte offerte da una lunga serie di studiosi che si sono sentiti attratti da questo racconto e gli hanno dedicato la loro attenzione. Confrontandosi con queste, accettandone alcune e respingendone altre, il lettore compie un suo personale percorso di ricerca che magari non lo porterà a risolvere il mistero, ma certo gli farà scoprire molte cose, e non solo su Flaubert.

Buon vento, Julien

Grazie per questi cinque anni insieme.
La tua compagnia mi ha aiutato a non abbandonarmi allo sconforto quando il terremoto mi ha portato via la casa, e grazie a te sono riuscito a sopportare i comportamenti meschini di persone che ritenevo amiche. Te ne sarò sempre grato.
Tu che sei il patrono di viaggiatori e pellegrini, proteggi, ti prego, quelli che mi sono cari nel viaggio pericoloso attraverso la vita.
Addio, e buona fortuna.

Di Felice Edizioni. 2019. 488 pagine. 26 Euro.