Fare miliardi con i libri

La formula di John Baldwin per fare i miliardi con i libri:

1) L’eroe è un esperto;

2) Il cattivo è un esperto;

3) Tutte le cattiverie vanno guardate come dalla spalla del cattivo;

4) L’eroe ha dietro di sé una squadra di esperti in vari campi;

5) Due – o più – componenti della squadra devono innamorarsi;

6) Due – o più – di loro devono morire;

7) Il cattivo deve spostare la propria attenzione dall’obiettivo iniziale alla squadra;

8) Cattivo ed eroe devono sopravvivere per continuare a combattersi in un eventuale seguito;

9) Tutte le morti devono procedere dall’individuale al collettivo: mai scrivere “cadde la bomba e fece fuori diecimila persone”, bensì “X e Y andavano a passeggio nel parco quando la terra si aprì sotto i loro piedi”;

10) Se ci si è impantanati, uccidere qualcuno (ma quest’ultimo precetto era già noto e praticato nell’ambiente dei cinematografari italiani come “effetto Vincenzoni”, dal nome di un celebre tecnico di Cinecittà: se la storia languiva e il regista non aveva idee migliori, una porta si apriva e ne veniva fuori la canna di una pistola da cui partiva un colpo).

J. Baldwin è un “ex falegname americano di 53 anni che insieme a un medico epidemiologo di 57 ha scritto “The Eleventh Plague” (l’undicesima piaga): un polpettone di 640 pagine che racconta il folle disegno d’un serial killer che vuol fare il bis delle dieci piaghe d’Egitto. Per mesi, il manoscritto vagò pigramente su varie scrivanie, accumulò polvere e sguardi sprezzanti, e alla fine, dato che in editoria il confine tra la spazzatura e l’oro non è ben definito, spuntò un contratto da tre milioni di dollari dall’editore HarperCollins, che l’ha pubblicato.

La storia di B. è esemplare. Negli anni ’70 viene fulminato dalla lettura di “Coma”, celebre “medical thriller” di Robin Cook, e ancor più dalla leggenda meropolitana secondo cui per scriverlo Cook si era preso la briga di analizzare 100 bestseller onde ricavarne una ricetta infallibile. B. intuì che “Coma”, quel che c’era scritto e soprattutto come era stato scritto, ERA la ricetta. Lo studiò, l’annotò, lo confrontò coi libri di Tom Clancy e coi noir di Hollywood anni ’40 e ’50. Infine stilò la formula di cui sopra.

Fonte: Francesco Durante, A basso volume, La Repubblica delle Donne, anno 3°, n. 101 (dal 19 al 25 maggio 1998), pagg. 158-163).

Profilo di Tomas Tranströmer

a cura di Gianna Chiesa Isnardi
per l’edizione 2008 di “Perché i poeti…”
Teramo, Chiostro di San Giovanni, 8 luglio 2008

Gratificato da un successo straordinario fin dalla pubblicazione della sua prima raccolta, 17 poesie (17 dikter), uscita nel 1954, Tomas Tranströmer può certamente essere considerato uno dei massimi poeti viventi e, insieme ad August Strinberg, l’autore svedese più apprezzato e tradotto all’estero. Tomas Gösta Tranströmer è nato a Stoccolma il 15 aprile 1931, da padre giornalista e madre insegnante. Cresciuto con la madre dopo la precoce separazione dei genitori, ha vissuto nell’infanzia un profondo rapporto affettivo con i nonni materni. Delle loro figure così come dell’ambiente e della natura svedese – in particolare dell’arcipelago di Stoccolma, dove nell’isola di Runmarö il poeta conserva la vecchia casa di famiglia – si trova più di una traccia nei suoi componimenti: basti pensare, innanzi tutto, a Mari baltici (Östersjöar, 1974). Dopo la laurea ha lavorato come psicologo, prima all’Università, poi in istituti di correzione e centri di riabilitazione: una professione che ha lasciato segni tangibili nella sua opera poetica. E pure i numerosi viaggi all’estero, così come la passione per la musica (pianista di talento ha composto anche qualche brano) hanno avuto evidenti ricadute nella sua arte. Negli ultimi scritti si riconoscono anche le tracce della dolorosa esperienza della malattia che lo ha colpito nel 1990, limitando le sue capacità motorie e la facoltà di parlare; seppure egli abbia saputo, con grande forza d’animo, riprendere una vita pressoché normale accanto alla moglie Monica.

Tomas Tranströmer non è un autore particolarmente prolifico, ma l’elevatissimo livello poetico dei suoi lavori gli ha guadagnato una fama crescente, una folta schiera di imitatori e un unanime apprezzamento. Tra gli altri hanno dichiarato il proprio debito letterario nei suoi confronti poeti come Iosif Brodskij, Seamus Heaney o Wislawa Szymborska, vincitori del Premio Nobel. Un premio che a lui è fino a ora mancato, seppure molte voci autorevoli lo abbiano più volte sollecitato. Molti altri riconoscimenti letterari hanno comunque segnato la sua prestigiosa carriera. Al suo nome la città di Västerås (in cui egli ha a lungo vissuto) ha intitolato, nel 1997, un premio per i contributi culturali che viene assegnato ad autori nordici o baltici. Oltre ai testi poetici, tradotti in circa cinquanta lingue, Tomas Tranströmer ha scritto una breve autobiografia dal titolo I ricordi mi vedono (Minnena ser mig, 1993) e ha prodotto diverse traduzioni da autori stranieri.

La poesia di Tomas Tranströmer va certamente inquadrata nel cosiddetto Modernismo, sebbene essa presenti caratteristiche proprie che richiamano il senso della proporzione dei Classici, la profondità della Mistica medievale, ma anche correnti letterarie più recenti come il Simbolismo e il Surrealismo. Eccellente è in lui l’uso della metafora che rievoca per certi versi la forza contraddittoria di quella barocca.

Tomas Tranströmer è un poeta generoso con i suoi lettori e i suoi traduttori. Ai primi insegna a ‘vivere’ secondo la propria realtà la lettura della poesia. In una occasione ha dichiarato: “Se ci si pensa, ogni lettore fa la propria traduzione di ogni poesia che lui/lei legge. Ogni lettore ha una propria lingua, un proprio ambiente, un proprio mondo fantastico. Perciò ogni lettore ha, per così dire, la sua poesia. Il testo è lo stesso ma le poesie sono differenti” (Om man tänker efter, så gör ju varje läsare sin egen översättning av varje dikt han/hon läser. Varje läsare har sitt eget språk, sin egen miljö, sin egen fantasivärld. Varje läsare har därför sin egen dikt, så att säga. Texten är densamma, men dikterna blir olika). I secondi incoraggia nel difficile lavoro che svolgono. In occasione della consegna di un importante riconoscimento ha dichiarato: “Permettetemi di abbozzare due modi di considerare una poesia. Voi potete intendere una poesia come un’espressione della vita e della lingua, qualcosa che è cresciuto in modo naturale nella lingua in cui è scritto… Impossibile da trasportare in un’altra lingua. Un altro e opposto modo di vedere è questo: la poesia così come è presentata è manifestazione di un’altra poesia, invisibile, scritta in una lingua che sta dietro alle lingue comuni. Allora anche la versione originale è una traduzione. Un trasposizione in inglese o in malayalam (lingua del Kerala) è semplicemente un nuovo tentativo della poesia invisibile di prendere forma” (Let me sketch two ways of looking at a poem. You can perceive a poem as an expression of the life of the language itself, something organically grown out of the very language in which it is written… Impossible to carry over into another language./ Another, and contrary, view is this: the poem as it is presented is a manifestation of another, invisible poem, written in a language behind the common languages. Thus, even the original version is a translation. A transfer into English or Malayalam is merely the invisible poem’s new attempt to come into being.”). E d’altronde questa sensazione di afferrare il nucleo più segreto di ciò che è “poesia” è il frutto migliore che si trae dalla lettura dei componimenti di questo grande poeta.

Bibliografia:
1954  17 Dikter (17 Poesie),
1958  Hemligheter på vägen (Segreti sulla vita
1962  Den halvfärdiga himlen (Il cielo incompiuto)
1966  Klanger och spår (Echi e tracce)
1970  Mörkerseende (Colui che vede nel buio)
1973  Ur stigar (Fuori dai sentieri)
1974  Östersjöar (Mari Baltici)
1978  Sanningsbarriären (La barriera della verità)
1983  Det vilda torget (La piazza selvaggia)
1989  För levande och döda (Per vivi e morti)
1989  Minnena ser mig (I ricordi mi vedono)
1996  Sorgegondolen (La gondola a lutto).

 

 

Elmore Leonard

Le dieci regole per scrivere bene:

1. Mai aprire un libro parlando del tempo
2. Evita i prologhi
3. Introduci i dialoghi esclusivamente con “disse”
4. Mai accompagnare il verbo “disse” con un avverbio
5. Tieni i punti esclamativi sotto controllo
6. Mai usare le espressioni “improvvisamente” o altre frasi fatte
7. Risparmia espressioni dialettali o gergali
8. Niente descrizioni dettagliate dei personaggi
9. Niente descrizioni dettagliate di luoghi e cose
10. Tenta di lasciar fuori le parti che un lettore salterebbe.

 

Altra versione:

1. Niente descrizioni ambientali, di solito il lettore passa direttamente ai personaggi.
2. Niente prologhi, infastidiscono chi legge.
3. Usare il dialogo tra virgolette e introdurre le battute esclusivamente con “dice”.
4. Non accostare nessun avverbio al verbo “dire” (vietato “dice improvvisamente).
5. Fare poco uso di esclamativi, la giusta misura è 2 o 3 ogni 100mila parole.
6. Non usare l’avverbio “improvvisamente”.
7. Utilizzare con misura frasi di gergo, straniere o dialettali.
8. Niente descrizioni dettagliate dei personaggi (modello di sinteticità, Hemingway).
9. Condensare al massimo luoghi e situazioni per non rallentare il pathos dell’azione.
10. Eliminare senza scrupoli le parti che il lettore salterebbe.

 

Bibliografia di Tranströmer in italiano

Per quanti fossero interessati, ecco la bibliografia delle traduzioni italiane di Tomas Tranströmer:

 

Poesia svedese, a cura di Giacomo Oreglia, prefazione di Salvatore Quasimodo, Lerici Editori, Milano 1966

Camminando nell’erica fiorita. Poesia contemporanea scandinava, a cura di Fulvio Ferrari, Lanfranchi, Milano 1989

Poeti svedesi contemporanei, a cura di Enrico Tiozzo, Ed. Bibò, Frosinone 1992

– Tomas Tranströmer, I ricordi mi vedono (Minnena ser mig, autobiografia), prefazione e traduzione di Enrico Tiozzo, Ed. Bibò, Frosinone 1996

Antologia della poesia svedese contemporanea, a cura di Helena Sanson ed Edoardo Zuccato, Crocetti Editore, Milano 1996

– “Otto poeti svedesi contemporanei”, a cura di Helena Sanson ed Edoardo Zuccato, in «Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica», n. 101, dicembre 1996

– Gianna Chiesa Isnardi, Lirica scandinava del dopoguerra. Voci e tendenze più significative, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1997

– “Tomas Tranströmer. Arcipelago autunnale”, a cura di Maria Cristina Lombardi in «Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica», n. 107, giugno 1997

– Tomas Tranströmer, Poesie, prefazione di Stanislao Nievo, traduzione di Giacomo Oreglia, Centro nazionale di Studi Leopardiani, Recanati 1999

– “Tomas Tranströmer. Poesia dal silenzio”, a cura di Maria Cristina Lombardi in «Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica», n. 153, settembre 2001

– Tomas Tranströmer, Poesia dal silenzio, a cura di Maria Cristina Lombardi, Crocetti Editore, Milano 2001

– Tomas Tranströmer, Sorgegondolen (La lugubre gondola), a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Herrenhaus Editore, Seregno 2003.

 

E’ prevedibile che adesso ne seguiranno altre.

Due parole sul tradurre

(premessa alla mia traduzione de
La légende de Saint Julien l’Hospitalier di Gustave Flaubert)

Diciamo la verità, una buona volta: si possono tradurre, con ragionevole esattezza, solo le istruzioni per l’uso, i manuali tecnici e le indicazioni stradali. I testi poetici, invece, andrebbero letti nella lingua in cui furono concepiti e scritti.

E’ evidente che chi si accinge a tradurre un testo questo è in grado di farlo (almeno si spera). Perché, allora, costui (o costei) non si accontenta di goderselo in santa pace, questo testo, e si accinge invece all’improba fatica di darne una versione nella sua lingua?

Se lo fa per campare, non c’è discorso. Ma se invece lo fa gratis et amore Dei, e se, oltretutto, sa già in partenza che il risultato di tanta fatica è destinato a restare nei suoi cassetti, insieme a tanta altra robaccia da lui prodotta, il caso si fa interessante. Che cosa lo spinge, dunque? Qual è la molla che scatta e lo costringe a sgobbare sul testo e su  dizionari, grammatiche e versioni preesistenti?

Le molle, in realtà, sono almeno due. La prima, la più importante, è l’amore.  Tradurre, quando non è un duro lavoro, è infatti fatica da innamorati.   Si traduce perché si amano l’autore e la sua lingua. La seconda molla è la presunzione. Già: diciamo anche quest’altra, di verità. Come epifenomeno dell’innamoramento sorge infatti nel soggetto amante anche la convinzione di aver capito meglio di chiunque altro l’amato. Non può fare a meno, pertanto,  di considerare questi vittima di una più o meno  lunga catena di soprusi, visto che nessuno, fra quanti gli si sono avvicinati nel tempo, gli ha mai reso giustizia. Nessuna delle traduzioni esistenti è dunque, a nostro avviso, degna dell’originale, e tocca a noi rimediare a tanto scempio.

Effettivamente, in alcuni casi, ciò che si legge in italiano, raffrontato al testo originale, mette i brividi o muove al riso (spesso, addirittura,  riesce nell’ardua impresa di suscitare le due reazioni insieme); ma, tolti questi casi estremi, la verità è che non esiste il modo “giusto” di tradurre. Sappiamo tutti perfettamente che tra i due estremi della versione interlineare e della totale riscrittura del testo – opzioni  peraltro anch’esse legittime e addirittura doverose in certi contesti – esiste una gamma infinita di soluzioni intermedie, in ciascuna delle quali viene messa in opera una particolare forma di infedeltà. Chi privilegia un aspetto, ne sacrifica necessariamente altri, non c’è alternativa. Proprio per questo è impossibile che le nostre scelte si rispecchino compiutamente in quelle di un altro. A questo punto, perciò, non resta che mettersi alla prova.

Certo, una volta che si è avvertito questo senso di insoddisfazione, non si può fare a meno di estendere il sospetto anche alle opere scritte in lingue che purtroppo conosciamo poco o punto, e che pertanto sfuggono alla nostra capacità di interpretazione e controllo. La verità è che ci siamo nutriti di ersatz, di echi, di ombre. Il settecento inglese; il grande ottocento russo; quello francese; i tedeschi; la narrativa nordamericana, per non parlare di tradizioni letterarie ancora più lontane, li abbiamo succhiati “interposito lino”, e, in molti casi, non c’è più niente da fare. Dove però è possibile, sia pure a fatica, intervenire, credo sia doveroso farlo. Quando l’insoddisfazione è davvero sentita, non c’è altra strada che armarsi di pazienza e buona volontà e partire per l’impresa.

Nel caso di Flaubert il discorso si fa ancora più difficile. Sapendo come lavorava, quanta fatica gli costasse ogni pagina, quanto tenesse a ogni minimo particolare, l’impresa  appare disperata. Qui è davvero l’amore a muovere all’azione; l’amore,  un’ammirazione sconfinata e un altrettanto sconfinato rispetto per l’uomo e per l’artista. Siccome tradurre è molto più che leggere, immergersi così in profondità all’interno di un capolavoro non può che farci del bene, renderci più consapevoli, se non altro, del mistero dell’arte. Soffriremo, faticheremo, ma la nostra fatica, per quanto grande, sarà sempre e soltanto una pallida eco di quella che ha fatto l’autore, così come il risultato del nostro lavoro non sarà che un timido, indecoroso riflesso dell’originale. Un percorso iniziatico quindi, non una sfida; un atto d’amore, piuttosto, un ringraziamento, quasi una preghiera.

Alla fine dell’introduzione agli Epigrammi di Marziale, da lui pur strepitosamente tradotti, Guido Ceronetti scrive: «E io rileggendo, rileggendo i testi miei che ne ho tratto, mi vergogno della mia ineleganza, colpa dell’impazienza, frutto dell’inesperienza – eppure presumevo di non essere troppo rozzo – con le quali avevo affrontato i suoi rigorosi epigrammi. Lettore impara il latino! Invece di Ceronetti leggerai Marziale». E’ un consiglio da seguire, e non solo riguardo al latino.

(1997)