(premessa alla mia traduzione de
La légende de Saint Julien l’Hospitalier di Gustave Flaubert)
Diciamo la verità, una buona volta: si possono tradurre, con ragionevole esattezza, solo le istruzioni per l’uso, i manuali tecnici e le indicazioni stradali. I testi poetici, invece, andrebbero letti nella lingua in cui furono concepiti e scritti.
E’ evidente che chi si accinge a tradurre un testo questo è in grado di farlo (almeno si spera). Perché, allora, costui (o costei) non si accontenta di goderselo in santa pace, questo testo, e si accinge invece all’improba fatica di darne una versione nella sua lingua?
Se lo fa per campare, non c’è discorso. Ma se invece lo fa gratis et amore Dei, e se, oltretutto, sa già in partenza che il risultato di tanta fatica è destinato a restare nei suoi cassetti, insieme a tanta altra robaccia da lui prodotta, il caso si fa interessante. Che cosa lo spinge, dunque? Qual è la molla che scatta e lo costringe a sgobbare sul testo e su dizionari, grammatiche e versioni preesistenti?
Le molle, in realtà, sono almeno due. La prima, la più importante, è l’amore. Tradurre, quando non è un duro lavoro, è infatti fatica da innamorati. Si traduce perché si amano l’autore e la sua lingua. La seconda molla è la presunzione. Già: diciamo anche quest’altra, di verità. Come epifenomeno dell’innamoramento sorge infatti nel soggetto amante anche la convinzione di aver capito meglio di chiunque altro l’amato. Non può fare a meno, pertanto, di considerare questi vittima di una più o meno lunga catena di soprusi, visto che nessuno, fra quanti gli si sono avvicinati nel tempo, gli ha mai reso giustizia. Nessuna delle traduzioni esistenti è dunque, a nostro avviso, degna dell’originale, e tocca a noi rimediare a tanto scempio.
Effettivamente, in alcuni casi, ciò che si legge in italiano, raffrontato al testo originale, mette i brividi o muove al riso (spesso, addirittura, riesce nell’ardua impresa di suscitare le due reazioni insieme); ma, tolti questi casi estremi, la verità è che non esiste il modo “giusto” di tradurre. Sappiamo tutti perfettamente che tra i due estremi della versione interlineare e della totale riscrittura del testo – opzioni peraltro anch’esse legittime e addirittura doverose in certi contesti – esiste una gamma infinita di soluzioni intermedie, in ciascuna delle quali viene messa in opera una particolare forma di infedeltà. Chi privilegia un aspetto, ne sacrifica necessariamente altri, non c’è alternativa. Proprio per questo è impossibile che le nostre scelte si rispecchino compiutamente in quelle di un altro. A questo punto, perciò, non resta che mettersi alla prova.
Certo, una volta che si è avvertito questo senso di insoddisfazione, non si può fare a meno di estendere il sospetto anche alle opere scritte in lingue che purtroppo conosciamo poco o punto, e che pertanto sfuggono alla nostra capacità di interpretazione e controllo. La verità è che ci siamo nutriti di ersatz, di echi, di ombre. Il settecento inglese; il grande ottocento russo; quello francese; i tedeschi; la narrativa nordamericana, per non parlare di tradizioni letterarie ancora più lontane, li abbiamo succhiati “interposito lino”, e, in molti casi, non c’è più niente da fare. Dove però è possibile, sia pure a fatica, intervenire, credo sia doveroso farlo. Quando l’insoddisfazione è davvero sentita, non c’è altra strada che armarsi di pazienza e buona volontà e partire per l’impresa.
Nel caso di Flaubert il discorso si fa ancora più difficile. Sapendo come lavorava, quanta fatica gli costasse ogni pagina, quanto tenesse a ogni minimo particolare, l’impresa appare disperata. Qui è davvero l’amore a muovere all’azione; l’amore, un’ammirazione sconfinata e un altrettanto sconfinato rispetto per l’uomo e per l’artista. Siccome tradurre è molto più che leggere, immergersi così in profondità all’interno di un capolavoro non può che farci del bene, renderci più consapevoli, se non altro, del mistero dell’arte. Soffriremo, faticheremo, ma la nostra fatica, per quanto grande, sarà sempre e soltanto una pallida eco di quella che ha fatto l’autore, così come il risultato del nostro lavoro non sarà che un timido, indecoroso riflesso dell’originale. Un percorso iniziatico quindi, non una sfida; un atto d’amore, piuttosto, un ringraziamento, quasi una preghiera.
Alla fine dell’introduzione agli Epigrammi di Marziale, da lui pur strepitosamente tradotti, Guido Ceronetti scrive: «E io rileggendo, rileggendo i testi miei che ne ho tratto, mi vergogno della mia ineleganza, colpa dell’impazienza, frutto dell’inesperienza – eppure presumevo di non essere troppo rozzo – con le quali avevo affrontato i suoi rigorosi epigrammi. Lettore impara il latino! Invece di Ceronetti leggerai Marziale». E’ un consiglio da seguire, e non solo riguardo al latino.
(1997)