Un Maestro sul tradurre poesia

Giovanni Giudici, Tradurre poesia, da Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, 1992.

Da ragazzo mi piaceva Baudelaire, poeta relativamente moderno ma quanto mai glorioso se anche la mia nonna materna, che aveva fatto la terza elementare, era stata raggiunta dall’eco della sua fama. Lei pronunziava Ba-u-de-là-i-re così com’era scritto, perché non conosceva il francese; ma io sì, lo avevo studiato al ginnasio e più tardi avevo potuto scoprire sui tomi della Letteratura universale del Prampolini d’essere in grado di leggerlo e capirlo a prima vista senza vocabolario (si diceva «all’impronto» ossia à l’impromptu). Così fu Baudelaire il primo, e segretissimo, banco di prova delle mia ambizioni di traduttore che si arenarono però, dopo due o tre tentativi, davanti alla sciatteria dei versi martelliani in cui avevo cercato di travasare gli alessandrini di Bénédiction e L’Albatros.

L’esperimento era venuto a confortarmi in anticipo nella convinzione, maturata molti anni più tardi, della quasi impossibilità (almeno per me) di tradurre poesia da lingue affini, come il francese e specialmente lo spagnolo, dove la relativa facilità di rendere significati e sintassi (il «ciò-che-vuol-dire» del testo) ha per contropartita la quasi cancellazione del «ciò-che-è»: suono, ritmo, rima e insomma tutte le altre componenti della lingua poetica. Se, per esempio, penso al grande Poeta da me prediletto*, non riesco proprio ad accettare che «Bajo los arcos del puente el agua clara corrìa»** possa tradursi con «Sotto le arcate del ponte l’acqua chiara correva» per quanto ineccepibile appaia questa traduzione. Ma si tratta, appunto, di una traduzione interlineare e non di una traduzione in lingua poetica, per cui sentiamo che un qualcosa di molto importante ne va inevitabilmente perduto: l’arcigna e inoppugnabile esattezza della lettera prevarica e distrugge l’aerea grazia dello spirito; o, con diversa metafora, il corpo soffoca l’anima dell’originale, proprio quel «ricco e strano» che stabilisce fra lingua d’uso e lingua poetica un’essenziale e irrinunciabile distanza. È vero anche, però, che la percezione del «ricco e strano» potrebbe esser dovuta alla semplice diversità ed estraneità linguistica: a chiunque sarà capitato, suppongo, di scambiare per poesia qualcosa che non andava al di là di una modesta versificazione, soltanto perché scritto in una lingua straniera direttamente accessibile e tuttavia inconsueta. E alla stessa circostanza dovrà riportarsi l’eccessivo consenso tributato da molti a certa poesia dialettale, benché io non significhi con questo di essere contrario all’uso del dialetto in poesia. Volevo dire soltanto che un testo poetico in dialetto rende più problematico il giudizio sul suo effettivo valore, anche perché esso può facilmente contrabbandare un’impressione di falsa immediatezza e semplicità e una sensazione, spesso fittizia, di distanza linguistica che non deriva dal suo essere lingua poetica, bensì appena «lingua altra». Un giudizio critico pienamente attendibile dovrebbe presupporre, infatti, una completa immersione di chi lo formula nell’universo lessicale e culturale della materia linguistica a partire dalla quale è costruita la lingua poetica del testo. Senza voler stabilire gerarchie (che in poesia possono risultare arbitrarie), io amo il Belli assai più del Porta e, se provo a domandarmene il perché, mi rendo conto adesso che ciò dipende dal fatto che il dialetto romanesco del primo mi suona molto meno «dialettale» che il milanese del secondo, essendovi io rimasto immerso dagli anni della prima fanciullezza fino a quando ne avevo già più di trenta, malgrado che il conto degli anni vissuti a Milano superi ormai di parecchio quello degli anni vissuti a Roma e io non abbia nessuna difficoltà a capire (senza tuttavia parlarlo) quel che ancora resiste del dialetto milanese.

Sia chiaro che riferisco qui di sensazioni del tutto soggettive, le stesse per cui non soltanto non ho ritenuto di tradurre versi di poeti che potessi direttamente e totalmente apprezzare nell’originale, ma non riesco quasi mai a valutarne le traduzioni «poetiche» fatte da altri. Considero invece utilissime, sotto ogni aspetto e da ogni lingua, le traduzioni dette «di servizio» che, accompagnate dal testo a fronte, permettono di accedere all’originale senza dover troppo consultare continuamente il vocabolario.

Questo vorrebbe dir dunque che io ritenga impraticabile la traduzione di poesia? In linea assoluta sì, e non credo di essere il solo: tali e tante sono le componenti del sistema-testo che è impossibile renderle tutte e, più ancora, rendere la rete dei loro rapporti. Una minuscola scossa, e il bel paesaggio del caleidoscopio si guasta. Prendiamo un sonetto del Petrarca, quello che comincia:

Son animali al mondo de sì altera
vista che ‘ncontra ‘l sol pur si difende;
altri, però che ‘l gran lume gli offende,
non escon fuor se non verso la sera…

Per me quel «verso la sera» che chiude la quartina è bellissimo, non soltanto per il suo pur minimo scarto rispetto all’abituale «verso sera», ma anche per il suo effetto di rallentamento che obbliga il lettore a soffermarvisi. E non è da pensare che il Petrarca abbia dovuto, con l’apparentemente pleonastico articolo la, far quadrare l’endecasillabo. Ci sarebbero stati altri modi. Ha scritto «verso la sera» perché ha voluto scriverlo. Ebbene, come renderlo in traduzione, magari in una lingua dove l’articolo non esista? Meglio che la domanda resti senza risposta.

Non voglio eccedere in nichilismo, tanto più avendo io stesso tradotto da poeti di lingue che non conoscevo affatto o conoscevo (come l’inglese) in modo alquanto libresco: circostanza, però, che stabiliva tra me e quei testi la distanza necessaria per trattarli con quel tanto di felice incoscienza di cui approfittiamo, per esempio, nel discorrere di personaggi vissuti secoli fa o abitanti in luoghi lontani, e anche nello scrivere su autori defunti o stranieri (e meglio ancora se stranieri e defunti). Quei versi, talvolta tradotti su commissione, li traducevo anzitutto per me; per fare il mio lavoro, se traducevo su commissione; o per esercizio o (diciamo così) per passione. Nel caso particolare dell’Onegin di Puškin ci fu da parte mia anche l’interesse per un esperimento prosodico che mi offriva contemporaneamente la possibilità di un contatto da vicino con la poco conosciuta lingua dell’originale. Alcune traduzioni sono state episodiche e frammentarie: tra esse quelle da Yeats e da Stevens che considero tuttora come esperienze soddisfacenti.

Ho sempre cercato, insieme a un ragionevole grado di fedeltà alla lettera dell’originale, di tener presente una regola almeno indicativa: che, nel tradurre versi, il problema non è di tradurre da una lingua in altra lingua, ma da lingua poetica in lingua poetica e con attenzione a tutti i fattori in gioco, in modo che poesia non fossero soltanto gli originali ma anche (per quanto possibile) le traduzioni.

Ho tradotto anche Pound, uno dei suoi testi più ardui: Hugh Selwyn Mauberley. Fu per riempire un periodo di ozio obbligato a Torino, nel giugno del 1958. La società Olivetti, dalla quale dipendevo, mi aveva messo (era la formula) «a disposizione dell’Ufficio Personale», un’anticamera del licenziamento. Invece poi mi tennero e mi mandarono a Milano. Ma intanto non avevo niente da fare e nella mia casa di corso IV Novembre 114 ingannavo il tempo con quell’esercizio. La traduzione, largamente imperfetta e con errori, dovette però sembrare efficace almeno nel tono: Luciano Anceschi l’avrebbe poi pubblicata su «Il Verri» e Vanni Scheiwiller ne avrebbe fatto uno dei suoi volumetti. Pound stesso, quando rientrò dall’America due anni dopo, mi manifestò il suo muto apprezzamento apponendovi la seguente dedica: «A G. il risponsabile». In seguito, per quasi due decenni, avrei continuato a emendarla.

La traduzione poetica che più di ogni altra, salvo forse l’Onegin, ha influito sulla mia esperienza è stata quella di Frost. Mi era stata affidata nel 1962 o ’63 dalla casa editrice Einaudi. Frost lo conoscevo appena di nome. Ricevetti il volume dei suoi Collected Poems e cercai subito di fare una mia scelta, secondo un criterio non strettamente estetico, ma piuttosto di traducibilità. Mi mettevo alla macchina per scrivere avendo a sinistra il libro di Frost e a destra il dizionario Webster e così procedevo a una prima stesura da cui derivare poi quella definitiva.

Oggi io ritengo che Robert Frost sia stato un poeta di notevole valore, ben al di sopra dell’immagine di «bardo americano» che molti ne intrattengono. Ma allora non mi rendevo conto della sua vera statura: cercavo di liberarmi dal lavoro che mi era stato ordinato e di portarlo a termine con diligenza per averne il compenso pattuito.

Da questo lavoro imparai, quasi senza avvedermene, diverse cose: una è che un poema (o una poesia, se proprio così vuole l’abitudine) deve avere nella traduzione lo stesso numero di versi dll’originale, anche se ciò richieda di fare dei versi più lunghi. Ma la misura e il senso poetico di un verso non dipendono esclusivamente dal numero delle sue sillabe.

Naturalmente, o forse per una sorta di condizionamento culturale, il «ciò-che-vuol-dire» gode di solito nella traduzione poetica di un’attenzione privilegiata. Ma non è detto che sia sempre quello il «principio costruttivo fondamentale» di cui parla Tynjanov. In alcuni casi, infatti, può essere la rima; in altri (come in certi momenti della Rhyme of the Ancient Mariner di Coleridge) un gioco di allitterazioni; in altri ancora, un sistema di metafore legato a riferimenti culturali propri della lingua dell’originae e dunque da rendersi con equivalenti propri della lingua in cui si traduce; o anche la serie di terminazioni tronche di qualche sonetto dl Belli, come Morte scerta ora incerta («Staveno un par de gatti a ggnavolà / in pizzo ar tettarello accant’a mmè…») o lo splendido Er contratempo («Ecco qui er bene come incominciò / co la cugnata de Chicchirichì…»). Principio costruttivo fondamentale è, insomma, quello che caratterizza più fortemente di ogni altro un testo e che in una traduzione non può e non deve essere sacrificato perché tale traduzione possa con qualche plausibilità dirsi «poetica».

Predico bene, lo so, e razzolo male, io che ho tradotto il titolo di John Donne A valedicion: forbidding mourning col suggestivo ma prevaricante Addio, proibito piangere. Meglio sarebbe, forse, non fare traduzioni poetiche e diffondere invece la conoscenza delle lingue straniere: un altro modo di andare in Cina a piedi. Ma è quasi fatale che la pratica smentisca il più delle volte la teoria. Così tenterò di conciliare l’inconciliabile col dire che tradurre in versi poesia d’altre lingue divena, entro certi limiti, non impossibile e può approdare a risultati anche apprezzabili: a qualcosa o a parecchio di meno (quasi sempre), a qualcosa di meglio (quasi mai), a qualcosa di diverso (comunque). E sempre che ci sia un forte e reale interesse del traduttore.

 

*     Si riferisce ad Antonio Machado.

**    È un verso da «Hacia un ocaso ardiente…», da Soledades, Galerías y otros poemas, 1907. Il verso, in realtà, dice: «Bajo los arcos de piedra el agua clara corría». Ecco il testo della lirica:

Hacia un ocaso ardiente
caminaba el sol de estío,
y era, entre nubes de fuego, una trompeta gigante,
tras de los álamos verdes de las márgenes del río.

Dentro de un olmo sonaba la sempiterna tijera
de la cigarra cantora, el monorritmo jovial,
entre metal y madera,
que es la canción estival.

En una huerta sombría
giraban los cangilones de la noria soñolienta.
Bajo las ramas oscuras el son del agua se oía.
Era una tarde de julio, luminosa y polvorienta.

Yo iba haciendo mi camino,
absorto en el solitario crepúsculo campesino.

Y pensaba: «¡Hermosa tarde, nota de la lira inmensa
toda desdén y armonía;
hermosa tarde, tú curas la pobre melancolía
de este rincón vanidoso, oscuro rincón que piensa!»

Pasaba el agua rizada bajo los ojos del puente.
Lejos la ciudad dormía
como cubierta de un mago fanal de oro transparente.
Bajo los arcos de piedra el agua clara corría.

Los últimos arreboles coronaban las colinas
manchadas de olivos grises y de negruzcas encinas.
Yo caminaba cansado,
sintiendo la vieja angustia que hace el corazón pesado.

El agua en sombra pasaba tan melancólicamente,
bajos los arcos del puente,
como si al pasar dijera:

«Apenas desamarrada
la pobre barca, viajero, del árbol de la ribera,
se canta: no somos nada.
Donde acaba el pobre río la inmensa mar nos espera».

Bajo los ojos del puente pasaba el agua sombría.
(Yo pensaba: ¡el alma mía!)

Y me detuve un momento,
en la tarde, a meditar…

¿Qué es esta gota en el viento
que grita al mar: soy el mar?

Vibraba el aire asordado
por los élitros cantores que hacen el campo sonoro,
cual si estuviera sembrado
de campanitas de oro.

En el azul fulguraba
un lucero diamantino.
Cálido viento soplaba,
alborotando el camino.

Yo, en la tarde polvorienta,
hacia la ciudad volvía.
Sonaban los cangilones de la noria soñolienta.
Bajo las ramas oscuras caer el agua se oía.

 

Giudici scrisse che il suo lettore ideale è «uno come me quando leggo Machado».  Perché Antonio Machado «è uno dei tre o quattro poeti ai quali di tanto in tanto continuo a rivolgermi: con tutto lo scoramento che in certe sere mi spinge a prendere dallo scaffale l’ormai consunto volume delle Poesías completas, a cercare conforto nella limpidezza e nella musica del suo verso, a specchiarmi nella disarmata autenticità del suo sentimento».

 

 

Alcune cose da evitare

Consigli di un Maestro ai poeti e aspiranti tali di ogni età.

Giovanni Giudici (1924-2011)
Da Andare in Cina a piedi – Racconto sulla poesia (Edizioni e/o, 1992).

In tanti anni che scrivo versi o vengo richiesto di giudizi su versi altrui, penso di essere giunto quanto meno al sospetto di alcune trappole evitabili con un minimo d’attenzione. Sono riuscito a maturare una marcata diffidenza per i verbi al tempo futuro: dal momento, oltre tutto, che non possiamo sapere come il futuro sia per essere e che, di conseguenza, ogni verbo al futuro finisce per avere come referente un qualcosa che non esiste. Uguale diffidenza nutro per certe parole a effetto (schianto, strazio, graffiante, ecc.) e per i sentimenti gridati. Vi è in questi e in quelle una pretesa di espressività che mal nasconde una reale condizione di insolvenza espressiva: sicché vanno quasi fatalmente in protesto come cambiali truffaldine, vogliono dire troppo e non dicono niente. Molta cautela ho imparato a usare verso parole drammaticamente definitive (niente, tutto, vita, morte, sempre, mai e simili), il cui abuso può non di rado sortire effetti semanticamente alienanti, dove un tutto diventa un niente. Al contrario, tendo adesso ad accordare preferenza a termini di tono medio (a un turbato, ad esempio, più che a uno sconvolto): pretendere troppo dalle parole è pericoloso, c’è il rischio di farle scoppiare come bolle di sapone. Ciò non esclude il ricorso a parole inusitate, quando l’intento sia di usarne la “stranezza”; o, invece, alle parole più disarmate e usuali. E ho già detto del non doversi insistere nell’inserire a tutti i costi in un poema un’immagine o idea che tanto ci piacerebbe e che però non c’entra. In Salutz, certi “treni” approdanti parallelamente a una stazione fui costretto, a suo tempo, a farli sparire: a rifiutarli era proprio il testo, che poi si sarebbe svolto su un’immagine (invece) di “… barche d’errabonda schiera / Che un medesimo porto a sera unisce”.
Non negherò un qualche mio debole per procedimenti retorici come l’allitterazione, la litote, l’anastrofe, il chiasmo o altri dai nomi che non sto a dire: a patto però che vengan fuori quasi da sé, emergendo dal pozzo di miniera della lingua e non dovendo io dargli che una lieve spinta. La retorica non è un sistema di regole astratte, ma codificazioni di procedimenti nati dall’esperienza e riconosciuti di volta in volta come i più efficaci e forse connaturati ai modi del nostro intelletto, spontanei e naturali né più né meno che i modi di certi esercizi fisici quali il nuoto o la danza. Ragione per cui, leggo nell’aureo manuale di Lausberg, “se il filologo dichiara… che in una poesia questo o quel fenomeno appartiene alla ‘retorica’, non è detto che il poeta, componendola, abbia realmente pensato a quel fenomeno retorico”. Io stesso mi sono accorto solo recentemente che (sempre in Salutz) il verso “Ultime mie vilissime monete” deve non poco all’effetto allitterativo di tutte quelle m e di quelle e, combinato con la distribuzione degli accenti forti che scandiscono le due parole sdrucciole ùltime e vilìssime, intervallate dalla quasi monosillabica mie e seguite dalla piana monéte su cui si distende la clausola. Ma non posso davvero dire di aver pensato a tutte queste cose al momento in cui scrissi il verso: mi sonava bene, corrispondeva alla mia intenzione, e basta. La retorica non precede, ma segue, la scrittura.
Consiglierei poi, in linea di massima, di evitare (se esso non abbia una sua precisa funzione divaricatrice tra ordine logico e ordine metrico) anche il vecchio enjambement: altrimenti l’onesto lettore avrà tutto il diritto di supporre che l’autore sia andato a capo perché nel verso precedente gli cresceva una parola (e, in effetti, è frequente il caso di enjambement del tutto gratuiti). Sarei inoltre estremamente parsimonioso nell’uso dei relativi: possono condurre a gineprai che molto disturbano la necessaria apparente naturalezza del discorso poetico; così valga per il disgiuntivo o: quando non usato con valore alternativo (o bianco o nero, o aggòtta o annega), allenta la tensione del verso. Meglio tenere il piede in una sola staffa. Quanto agli avversativi (ma, invece, tuttavia, ecc.) sarà bene non abusarne, resistendo alla tentazione di voler drammatizzare il testo con effetti di un contrasto che magari non sussiste.
Infine mi guarderò dal troppo voler far quadrare e troppo specificare: un eccessivo rispetto formale per la sintassi potrebbe tradursi, poeticamente, anche in una trappola. Se certe cose non riescono a spiegarsi da sé, qualcosa certamente non va; e mi guarderò anche dal ripetere (se non deliberatamente) una medesima parola nel raggio di almeno venti versi, ecc.