Sono ormai più di quarant’anni che ad ogni inizio d’estate rileggo lo stesso libro. E’ Le Trombe, di Giuseppe Cassieri, uscito da Bompiani nel 1965. La vicenda è racchiusa nello spazio di un’estate al mare. I protagonisti sono i componenti di una famiglia borghese – padre ex ammiraglio, madre casalinga, figlia nullafacente e genero giornalista – che seguiamo dal loro arrivo nella villa di famiglia, sul Golfo di Gaeta, fino alla tragicomica conclusione dovuta a una tromba d’aria. E’ un libro compatto e divertente, ricco di ironia, scritto con un lingua inventiva e trascinante, ma a me è caro soprattutto perché riesce ad evocare certe lunghissime, pigre e quiete estati lontane, quando ero molto giovane e tutto doveva ancora accadere.
Ne ho diversi altri, di questi libri che non appartengono al numero di Quelli Che Bisogna Leggere Assolutamente e tuttavia mi sono molto cari, al punto che li considero alla stregua di vecchi amici. Li rileggo a intervalli più o meno regolari, senza mai stancarmi. Anzi: spesso, in passato, mi sono rifugiato nelle loro pagine nei non rari momenti difficili della vita, e sempre ne ho ricavato gioia e conforto.
C’è, per esempio, Il numero uno, di Hans Ruesch (quello di Paese dalle ombre lunghe e Imperatrice nuda). Il protagonista, Erwin Lester, è un campione automobilistico degli anni trenta. Tra corse, amori, incidenti e tradimenti, ne seguiamo le imprese dalle prime vittorie fino alla definitiva consacrazione, che coincide con il momento in cui, a partire dal 1934, irrompono sulla scena automobilistica fino allora terreno di lotta della triade Alfa Romeo, Bugatti e Maserati, le argentee vetture della Mercedes Benz e della Auto Union. Le macchine tedesche domineranno poi, quasi incontrastate, fino alle soglie della seconda guerra mondiale. Altro che la minestrina riscaldata della Formula 1 odierna! Qui i bolidi, simili a grossi siluri, senza limiti di cilindrata, sono veloci come e più di quelli d’oggi, ma in ogni gara corrono per almeno 310 miglia sulle loro ruote alte più d’un metro, e i piloti le guidano in tuta e cuffia di lino bianco e scarpe da passeggio. C’è il resoconto delle ultime fasi di una Mille Miglia, nelle pagine iniziali, che ti porta il rombo dei motori e l’odore inebriante della benzina fin dentro la stanza, e devi fare una fatica boia per controllare in curva la poltrona sulla quale sei seduto a leggere. Co-protagonisti, adombrati da nomi di fantasia epperò perfettamente riconoscibili, sono i grandi campioni di quell’epoca eroica, da Nuvolari (Dell’Oro) che Ferdinand Porsche definì “Il più grande pilota del passato, del presente e del futuro” a Stuck, da Varzi a Rosemeyer. Ne hanno anche fatto un film, Destino sull’asfalto (1955), diretto da Henry Hataway e interpretato da Kirk Douglas. Non ho mai avuto occasione di vederlo, ma non devo essermi perso granché, a giudicare dalla recensione che c’è sulla guida di Morandini.
C’è poi La nuvola nera, un classico della fantascienza, (1958, apparso in Italia nel ’59 tradotto da Luciano Bianciardi), scritto da Fred Hoyle, uno dei più grandi astrofisici di tutti i tempi, fiero avversario dell’ormai imperante teoria del Big Bang, alla quale contrappone la sua idea di un universo stazionario nel quale si opera una creazione continua, che forse non sarà vera, ma meriterebbe di esserlo per quanto è fascinosa. Secondo Hoyle, il Big Bang riguarderebbe soltanto il nostro angolino del cosmo, potrebbe essere magari solo uno di tanti “grandi botti” dispersi in una specie di super-universo perfettamente stazionario. Per colmo d’ironia, fu proprio Sir Fred a coniare il termine Big Bang, per confutare scherzosamente la teoria dell’universo evolutivo. Non lo convinceva nemmeno l’evoluzionismo darwiniano. Diceva che la vita non può essere nata sulla Terra perché la storia del nostro pianeta è troppo breve, e che il darwinismo non riesce a spiegare quei salti evolutivi di cui non esiste documentazione nei fossili. Per questo lui era convinto che la Terra fosse soltanto una “catena di montaggio” della vita, la cui origine va cercata invece nello spazio. A “colonizzare” i pianeti, tra cui il nostro, provvederebbero poi le molecole organiche presenti nelle code delle comete, in una sorta di “inseminazione spaziale” nota come “panspermia”. Negli ultimi tempi, la scoperta che sia le comete sia la polvere interstellare pullulano davvero di molecole organiche ha ridato credito alla teoria. Hoyle è stato sempre una voce fuori del coro, un cane sciolto osteggiato e spesso boicottato dall’establishment scientifico. In molti casi, ha affidato ai libri di divulgazione (e ai romanzi di fantascienza) quelle idee eterodosse che non avrebbero trovato accoglienza sulle prudenti riviste scientifiche. Anche se prove sperimentali sembrerebbero confermare l’idea di una esplosione originaria e di un universo in espansione, le teorie di Hoyle continuano a tenere in agitazione la comunità degli astrofisici e dei biochimici, ed è giusto così, perché di eretici come Fred Hoyle la scienza ha sempre bisogno per evitare di crogiolarsi in troppe sicurezze. Peccato che sia scomparso. Il mondo sarà più triste senza Sir Fred. Nel romanzo di cui parlo, una nuvola cosmica intelligente, che ama l’Op. 106 di Beethoven, oscura il sole causando sulla Terra un’era glaciale. Mi piace molto anche un altro libro di Hoyle, A come Andromeda (1962), dal quale fu tratto negli anni settanta un famoso sceneggiato con Luigi Vannucchi e Paola Pitagora. Vi si ipotizza la ricezione di un messaggio radio proveniente da una civiltà extraterrestre contenente le istruzioni per costruire un grande calcolatore. Idea ripresa da Carl Sagan, altro astronomo di fama internazionale, convinto assertore dell’idea che non siamo soli nell’universo, nel suo romanzo Contact, dal quale nel 1997 è stato tratto un discreto film con Jodie Foster.
C’è ancora 84 Charing Cross Road, di Helene Hanff, nel quale, attraverso una corrispondenza che dura vent’anni, si racconta la storia vera dell’amicizia tra una scrittrice americana e l’impiegato di una libreria londinese specializzata in libri usati. Grazie al comune amore per i libri e pur non incontrandosi mai, i due finiscono per vivere buona parte della loro vita in una profonda intimità, fatta di reciproci racconti, esperienze di lettura, discrete confessioni e, all’occasione, aiuto concreto. Il libro mi affascina perché parla di libri e di amore per i libri; perché la Hanff è una tipa tosta, abituata a lottare, e la sua America è quella del 1949, e ci si può ancora credere; perché in librerie come quelle io non ci sono mai entrato ma l’ho sempre sognato; perché ne hanno fatto un film molto bello, interpretato da una bravissima Anne Bancroft e da un grande Anthony Hopkins.
E infine c’è Whisky e gloria, di James Kennaway, che ci porta nella caserma scozzese dove è di stanza un battaglione del glorioso reggimento Highlanders, al cui comando è il vecchio Jock Sinclair, un militare venuto dalla gavetta, umano, generoso e amante del buon whisky. Jock ha condotto eroicamente i suoi uomini in guerra e incarna per tutti storia e leggenda del reggimento, eppure si vede ora sostituire da un damerino più giovane, fanatico della disciplina, che ha studiato a Eton e a Oxford e ha fatto le migliori accademie, ma non ha mai combattuto. Jock sarà anche tradito dagli amici e dalla donna che ama, ma alla fine, pur sbiellando un poco, si rivelerà centomila volte meglio di tutti i puzzoni che gli stanno intorno. Il suono struggente delle cornamuse, il whisky a fiumi, i tilt, le giacche cremisi, il gelo dell’inverno scozzese, la tradizione, l’amicizia… Buon Dio, che goduria. Nel 1960 ne hanno tratto un film, un bel film, anche in questo caso, che rende bene lo spirito del libro, interpretato da un superlativo Sir Alec Guinnes (ah, i grandi attori inglesi!)