L’arte della fuga

Giuseppe Pontiggia (1934-2003).

 

Arte della fuga rid

 

 

SEQUENZA PRIMA
DALL’UOVO

In fondo

Sono in un lunghissimo tunnel.
Ho cominciato a correre. Qualcuno mi inseguiva.
L’apertura in fondo diminuiva e allora mi voltai.
Volendo gridare, non uscendo nulla.

Allo specchio

« Per una buona serata d’amore » disse l’ingegnere facendosi la barba allo specchio « è indispensabile la pulizia. Una pulizia accurata e minuziosa. E radersi, soprattutto ».

Etimologia

Il delitto avvenne in un luogo chiamato « palazzo », dal latino palatium, cfr. Palatium (collis), cfr. palatum, palato e volta celeste, cfr. Ennio, caeli palatum; etimologia oscura, forse etrusca, cfr. etrusco falad (cielo).
Il palazzo sorgeva isolato in una piazza, capolinea del tram numero 18. La città (dal latino civitas, cfr. vecchio alto tedesco hiwo, marito, e hiwa, sposa) vegliava a un chilometro di distanza anche la notte del delitto.

Dialogo

« Chi è? » domandò dietro l’uscio l’ingegnere, asciugandosi il viso.
« (+) (+ –) ».
« Ah, sei tu » disse l’ingegnere.
Aprì la porta.
« Stavo uscendo » aggiunse. « Mi dispiace. Questa sera devo uscire ».
« (° + – +)? ».
« No. Con un’altra. È una commessa dell’UPIM ».
« (&°°! ”” + ^ +) (– ^ ^)? ».
« Non ancora. Ma presto ».
« (^ + –) = (^ + –) ».
« Grazie ».

Fondali
La pioggia frusciante precipitava a tratti violenta sull’asfalto nero nel viale rischiarato al neon della città allagata, un velo di pioggia continua dinanzi agli occhi assorti dell’ingegnere.
L’acqua silvana o la forza idraulica? E nella rete scintillante inestricabile galleggiava lei nelle luci, lei tra poco in attesa, galleggiando nell’acqua della notte.

Dei quanti

Quanto tempo nei preamboli?.                                  Quanto poi?
Quanto negando? Nei sorrisi?.                                  Quanto tempo?
Quante le pause? Quante le pressioni delle dita?     Quante le pause?
.                                                                                   Quanta la stanchezza?
Della voce?
Quanti i silenzi? Le parole?.                                       I silenzi?
Quanta l’attesa?.                                                        Quanta la luce il buio?
Quanti i passi? Quante le strade i numeri?.              Quanti i passi?
Quanti i gradini?.                                                        Quanti i gradini?
Quanti i battiti?.                                                          Quanti?

Domande su Desideri – 2005

Cop Des

Di Roberto Michilli, abruzzese di Campli – un’appartenenza esibita orgogliosamente -, intellettuale schivo e riservato, si conoscevano già le raccolte  di liriche e di racconti, che pur gli hanno procurato premi e  riconoscimenti;  è stato tuttavia il successo della sua ultima opera, “Desideri”, il coinvolgente romanzo, definito “giallo psicologico”,  pubblicato  dall’editore  Fernandel,   a risvegliare il vivace interesse del pubblico e della critica,  e a costringere  lo scrittore  ad uscire dal suo guscio di  discrezione.

 

Roberto Michilli, anni fa lei si è affacciato al mondo letterario con alcuni libri di versi. È corretto chiederle se  per lei “in principio fu la poesia” ?

In principio, a dire il vero, fu il diario. Ho cominciato scrivendo delle note che riguardavano le mie letture, i film che avevo visto, i concerti e le rappresentazioni teatrali alle quali avevo assistito, qui a Teramo e soprattutto a Roma e  a L’Aquila, città nelle quali ho vissuto per lavoro tra la fine degli anni settanta e la seconda metà degli ottanta. A queste annotazioni si sono in seguito aggiunti ricordi, qualche verso e anche idee e abbozzi per possibili storie. Per molto tempo tutto è restato a questo livello, finché nel 1989 un incidente  ha cambiato la mia vita. Sono stato costretto a rinunciare a molte cose che amavo, come l’alpinismo, lo sci e l’equitazione, e a condurre una vita più tranquilla. E’ stato allora che sono ritornato a quel mio journal e ho cominciato a sviluppare alcune delle idee lì annotate. Il mio primo racconto è infatti di quell’anno e anche le prime poesie risalgono a quella data. Le due cose sono andate poi avanti di pari passo, anche se la narrativa ha sempre avuto una parte preponderante.

 

Erano, peraltro, versi molto belli e molto lodati. Pontiggia le scrisse:  “…c’è una verità, in quello che scrivi, e un senso malinconico e nitido della bellezza che rimangono nella memoria”. Ecco, vorrei anch’io porre l’accento sulla malinconia che intesseva ogni suo verso, e  che il professor Ezio Sciarra definiva “una concezione dolente e alienante”. Erano sentimenti, emozioni, rimpianti che appartenevano a un periodo ben definito e circoscritto della sua vita ?

Malinconia e disincanto costituiscono la base del mio atteggiamento nei confronti dell’esistenza, non direi perciò che sono legati a momenti particolari.

 

Dopo le poesie – o contemporaneamente a queste – è arrivata la stagione dei racconti: che cosa la sollecitava a una  forma di espressione così diversa, a passare dalla  verticalità della lirica al respiro ampio e disteso del racconto ?

Come le dicevo, per quanto mi riguarda le due cose sono sempre andate avanti in parallelo. Con la differenza sostanziale che nella narrativa seguivo una sorta di progetto, e pertanto mi ci dedicavo con maggiore impegno e continuità. Guardando le cose in retrospettiva, credo di poter dire che la poesia mi è servita per “vuotare la sentina” da un eccesso di lirismo che avrebbe potuto inquinare altre scritture. Il lirismo in poesia mi piace. Forse non è più di moda, ma a me piace lo stesso. Nella narrativa, invece, mi sforzo di scrivere in modo sobrio e chiaro.

 

Lo stacco fra quello che ha scritto per tanti anni e  questo suo recente romanzo “Desideri”,  appare netto, abissale: ha sortito l’ effetto di una piccola deflagrazione, spiazzando tutti coloro che avevano letto i suoi libri precedenti. Si è trattato di una cesura meditata, voluta,  oppure, per dirla con Pirandello, ad un certo punto i personaggi hanno cominciato a vivere di vita propria, al di là delle sue stesse  intenzioni?

Questo sarebbe auspicabile sempre, perché così i personaggi risulteranno vivi e vitali e non fatti solo di parole. Nel mio caso, però, credo che lo stacco di cui lei parla dipenda soprattutto dalla circostanza che finora ho potuto pubblicare solo una minima parte di quanto ho scritto. Tra i racconti pubblicati da un lato e Desideri dall’altro esiste tutta una serie di testi ancora inediti,  che nel loro insieme potrebbero forse delineare una evoluzione dei temi e dello stile e rendere meno evidente la cesura.

 

Nel romanzo s’intrecciano quattro storie: i protagonisti sono persone senza problemi economici, del tipo “hanno tutto per essere felici”;  invece non lo sono, desiderano altro,  qualcosa o qualcuno, e, pur di ottenerlo, si  lasciano trascinare in comportamenti azzardati, rischiosi,  fuori dalla norma, dalle regole. Per quasi tutti, l’appagamento  ha esiti imprevisti e, in tre storie, addirittura tragici, come nei più classici “noir”.  Tali soluzioni risultano tanto più sorprendenti, quanto più il tono del narrare  è invece  leggero, comprensivo, venato di sottile ironia. La sua pare una visione priva  di moralismi, di pronunciate condanne; eppure risulta percorsa da  profonda disillusione e da lucida amarezza. È d’accordo ?

Ho scelto di prendere a protagonisti persone normali, che non hanno alcun carattere di eccezionalità. Ho cercato di coglierle in un momento critico della loro esistenza, rifuggendo però da tragedie di ogni tipo e altri facili effetti del genere. I personaggi  arrivano a questo momento di svolta partendo da posizioni di assoluta tranquillità materiale e psicologica; sono cioè presi al meglio delle loro possibilità. Un uomo è messo davvero di fronte al proprio essere solo se ha risolto i problemi materiali dell’esistenza, se è libero dalla fame e dalla sete, se può vestirsi decentemente e ha un tetto sopra la testa. Solo da questa posizione diventa individuo e può confrontarsi dignitosamente con se stesso e con il mondo. A questo punto però non ha più scuse né alibi. Se  vede attorno a sé il vuoto, è perché questo vuoto lo ha anche dentro. E il desiderio, la qualità del desiderio, qui diventa rivelatore, si fa specchio e confine. Noi che viviamo nelle opulente società occidentali siamo dei privilegiati, dovremmo diventare perciò più generosi e più giusti, e desiderare magari qualcosa che non riguardi sempre e soltanto noi stessi o la ristretta cerchia delle persone care. Ma questo sguardo affettuoso e partecipe sugli altri e sul mondo mi sembra ancora ben lontano dall’appartenerci.

 

In una sua nota finale, lei spiega che lo schema secondo cui le storie s’intrecciano è quello del madrigale: allettante chiave di lettura, che ha suggerito al giovane musicista Enrico Melozzi la composizione di una suite ispirata al romanzo. Come nasce concretamente la collaborazione fra uno scrittore e un musicista?

Premetto che trovo molto stimolante collaborare con artisti impegnati in  ambiti di ricerca diversi dal mio. Ho così realizzato un calendario insieme a un fotografo, ho lavorato con una scuola di teatro per bambini scrivendo i testi e adattandoli poi man mano che la messa in scena andava avanti, e, appunto, ho avuto un lungo sodalizio col maestro Melozzi. In questo caso entravano in gioco anche il mio profondo interesse per la musica, nonché  l’affetto e la stima che mi legavano al giovane Melozzi. E’ stato lui, nel 1998, a propormi di scrivere una favola  che avesse come obiettivo quello di avvicinare i bambini delle elementari alla musica colta. E’ nato così Il grande abete rosso, che ha richiesto un lavoro lungo e non facile di integrazione tra testo e musica e poi di messa a punto con la voce recitante e l’orchestra. Ci proponevamo infatti di dar vita non a un semplice racconto con accompagnamento musicale, quanto piuttosto a un lavoro organico in cui parole e note si compenetrassero per raggiungere un comune fine espressivo. A giudicare dall’interesse con cui centinaia di bambini hanno seguito negli anni la favola, forse ci siamo riusciti. Anche le esecuzioni in forma di concerto tenute nei teatri e nelle piazze sono state bene accolte. Nel 2003 il M° Melozzi ha poi scritto 3+3, una suite per pianoforte preparato e orchestra d’archi basata su una serie di miei frammenti poetici, e infine nel 2005 ha composto Ride-Side, una suite ispirata al mio romanzo (Ride-Side è l’anagramma di Desideri), che è costata molto lavoro anche a me, visto che ho dovuto scrivere ex-novo quasi tutti i testi utilizzati nel corso dell’esecuzione.

 

Due curiosità. La prima:  in una delle storie, situazioni e linguaggio sono, come dire?, piuttosto espliciti, sfiorano l’ hard. Non ha avuto alcun tipo d’imbarazzo? 

Non durante la stesura. In quella fase mi preoccupo solo della coerenza interna della storia, e nel caso di Deborah mi sembrava che certe situazioni andassero raccontate in modo esplicito, dato il carattere grottesco e i toni caricati della vicenda. Non potevo limitarmi a scrivere che il protagonista, pur di ottenere quello che voleva, era disposto a tutto. Non è così che funziona la narrativa. Le cose bisogna farle vedere, e lasciare poi che i giudizi morali sia il lettore a trarli, se vuole. A libro finito ho comunque sottoposto il manoscritto ad alcune persone di fiducia, che non hanno manifestato perplessità sul modo in cui quelle scene erano rese, reagendo in molti casi con quella risata che io mi auspicavo di suscitare. Anche il mio editore mi ha rassicurato. Mi ero dichiarato disponibile a emendare quelle parti qualora le avesse ritenute troppo “forti”, ma mi ha risposto che la storia stava bene così com’era. Mi risulta che anche i lettori del libro hanno colto il carattere funzionale di certe scene e l’assenza d’ogni compiacimento nella narrazione. In fondo Deborah è un “racconto morale”. Come e più delle altre storie che compongono il libro, parla di un mondo in cui esistono solo i desideri mentre tutti i valori si sono dissolti, un mondo nel quale il principio etico fondamentale recita: “È Bene ciò che è buono per me”, e quindi tutto è permesso.

 

La seconda: lei ha ambientato le sue inquietanti storie in una città di provincia di medie dimensioni, innominata ma riconoscibilissima, Teramo, così come sono riconoscibili la costa, i paesaggi abruzzesi. Avrebbe potuto scegliere un territorio neutro; invece  ha optato per una dimensione che le è vicina. È stata soltanto questa familiarità a ispirare la sua scelta? 

E’ Teramo e nello stesso tempo non lo è; così come il paese in cui si svolge in parte la vicenda di Elio è la mia Campli ma è anche qualcosa di diverso. Quasi tutte le mie storie hanno come sfondo i luoghi a me più cari della mia terra d’origine, questo angolo d’Abruzzo al quale sono visceralmente legato. Non solo Teramo e Campli, quindi, ma anche le cittadine della costa, con una particolare predilezione per Giulianova, e tante zone dell’adorato Gran Sasso, con i Prati di Tivo in testa. Ma tutte queste località ho cercato di trasfigurarle in modo da farne un territorio mitico, che richiami quello reale ma nello stesso tempo ne costituisca una sublimazione. Un po’ come hanno fatto, si parva licet, William Faulkner con la contea di Yoknapatawpha e Thomas Hardy con il Wessex.

Appunti su Pontiggia

Tra poco saranno dieci anni che Giuseppe Pontiggia non c’è più. Il più grande scrittore italiano del secondo Novecento, che per me era anche un Maestro e un amico, scomparve improvvisamente il 27 giugno 2003, lasciandoci tutti più poveri e più soli.

Lo ricordo con questi appunti, ritrovati ieri. Li avevo preparati per la presentazione di La chiarezza enigmatica, il libro che io, Simone Gambacorta e gli amici Paola Vagnozzi e Paolo Ruggieri della Galaad edizioni gli abbiamo dedicato nel 2009.

 

lachiarezzaenigmatica

 

Pontiggia insegna che uno scrittore non si improvvisa, ha bisogno di maturare, di crescere non solo come autore, ma anche e prima di tutto come uomo di serie e meditate esperienze umane e letterarie

Con la sua vita rigorosa Pontiggia propone un modello lontano dalle luci del palcoscenico e, contro le mode editoriali, indica una strada anche solitaria di formazione continua, di rilettura, di concentrazione su un’idea di letteratura che sia davvero un modo di vivere

Attento al clima della neoavanguardia, Pontiggia ha saputo fondere insieme la ricerca dell’innovazione e il radicamento nella tradizione

“Consumo” di giovani scrittori

Narrazioni di oggi frutto della cronaca, non di una riflessione sulla tradizione letteraria. Forme parziali e più eclatanti della realtà sociale, da qui il poliziesco, il noir spesso condito con un eros volgare e grottesco.

Se ne ricava l’idea di una letteratura di consumo, di svago, di libri da ombrellone, da buttare appena letti.

Lettore formidabile. Consulente editoriale ispirato da una passione profonda, convinto che bisogna scoprire e riscoprire autori e riproporre libri e romanzi secondo principi non casuali e per una letteratura capace di resistere nel tempo

Letteratura come invenzione (vs letteratura come menzogna e supremo artificio di Manganelli): ogni libro ha la sua forma, non ha mai scritto un romanzo ricalcato sui precedenti; la letteratura ha bisogno continuamente di rinnovare se stessa pur avendo chiare le tradizioni e i modelli da cui proviene

Insegnante di scrittura: essere prima buoni lettori. Lezioni alla radio: capolavoro culturale.

Asserendo che la recensione di un libro si può fare in poche righe, ha re-inventato un genere in dialogo stretto con i classici. Pagine illuminanti nella loro brevità, al limite della folgorazione sapienziale.

Finalità etica e civile: album del Sole 24 ore, rilegge i fatti della cronaca e della cultura in modo sapido e pungente.

In Prima persona: guardare alla realtà senza perdervisi, usando la letteratura e la scrittura come strumento di precisione per cogliere nel segno

Libertà e rigore:

. letteratura autentica, senza servilismi e senza nichilismi

. con la sua profondità ha restituito spessore e complessità culturale alla letteratura, ne ha mostrato le valenze etiche e civili, la forza e la vitalità, come nuovo e umanistico discorso sull’uomo e sulle cose.

Rapporti con l’avanguardia:

SI:

. coscienza dei nessi tra ideologia e scrittura

. messa in discussione e in crisi del linguaggio divenuto il “soggetto malato”

. attenzione ai meccanismi del racconto

. superamento di moduli critici e narrativi ormai stanchi

. sperimentazione come ricerca e insieme stimolo e occasione di lavoro

. riappropriazione delle avanguardie storiche

NO:

. attivismo di alcuni

. linguaggio intimidatorio

. si richiama a cambiamenti della storia ma poi la fa finire con sé

. proclami vagamente autoconsolatori sulla morte del romanzo

> La terapia sintomo dello stesso male che si vuole curare, però il male c’era e di certe indicazioni terapeutiche conviene tenere conto

Giuseppe Pontiggia su Attraverso la vita

 

 

 

 

 

Lettera prefazione:

Milano, 16 ottobre 2000

Caro Roberto,
mi ha colpito il nitore delle tue poesie, la loro liricità che sa fondere trasparenza visiva e densità gnomica.
La raccolta mi sembra abbia una forte unità. Le liriche evocano una presenza assenza, una partecipazione alla vita degli altri fatta di distanza, di distacco.
Direi che questo si percepisce anche quando la distanza sembra colmata dall’amore o dal rimpianto o dal desiderio. È anche lo spazio in cui il lettore si ritrova, perché nella tua intimità, così intensa e autentica, non c’è nulla di privato.
Le prose riprendono in parte i temi delle liriche, ma più spesso ampliano, in modi ellitticamente narrativi, lo sfondo, il paesaggio, l’ambiente umano nella sua varietà. Secondo me costituiscono un contrappunto felice con la prima sezione e ne prolungano la prospettiva in un senso corale.
C’è una verità, in quello che scrivi, e un senso malinconico e nitido della bellezza che rimangono nella memoria: e io non conosco altri segni di riconoscimento del valore.
Giuseppe Pontiggia

Dire bene

“Aveva letto in quei giorni una citazione senza nome: ‘Eterno è il mondo delle cose che non si possono dire’. E aveva pensato a quelle che si possono dire, quasi tutte, mentre ne rimanevano escluse quelle essenziali. La frase però continuava con una eccezione: ‘a meno che si dicano bene’. E lui sentiva che a quel ‘dire bene’ poteva valere la pena di dedicare una vita.”

Giuseppe Pontiggia, La grande sera