La leggenda di San Giuliano nei Contemporanei del futuro

Nuova edizione della Leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere di Flaubert nella collana di Classici

I contemporanei del futuro

La leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere è, come scrivono Proust e Joyce, la più perfetta delle opere di Flaubert, e quindi il capolavoro assoluto di uno che scrisse solo capolavori.  Assomiglia a un ingenuo racconto di fate, ma la sua trasparenza e la sua semplicità sono solo apparenti, e  lo smalto di miniatura da codice medievale nasconde in realtà un testo complesso, febbrile, enigmatico, ambiguo e crudele, e proprio per questo coinvolgente, indecifrabile, inquietante. Un testo  che permette di scrutare negli abissi dell’opera e della vita di Flaubert, e forse non solo della sua.

Senza la pretesa di fornirne una interpretazione esaustiva, questo libro vuole invitare a una sua lettura attenta, penetrante, non ingenua, che permetta se non altro di intuirne le profondità e di cogliere almeno qualcuno dei suoi molteplici aspetti nascosti.

Roberto Michilli

Flaubert, l’avvenire e la tetta.

La Nike dal sandalo, frammento dalla balaustra scolpita del tempio di Atena Nike sull’Acropoli di Atene.

Sulla via del ritorno dal lungo viaggio in Oriente iniziato il 4 novembre 1849, Gustave Flaubert arriva ad Atene il 19 dicembre 1850. Vorrebbe restarci diversi mesi, ma i fondi scarseggiano, gli rimangono solo 500 franchi, e così il 10 febbraio riprende la via di casa. Da Patrasso, in attesa di imbarcarsi sul vapore che lo porterà a Brindisi, Gustave scrive al suo grande amico Louis Bouilhet, e si interroga sull’avvenire: «Sì, invecchio; mi sembra che non posso combinare niente di buono. Ho paura di tutto in fatto di stile. Che scriverò al mio ritorno? Ecco ciò che mi domando senza tregua.» All’amico fraterno racconta ancora come tra i frammenti di scultura trovati sull’Acropoli sia stato colpito in particolare da un piccolo bassorilievo che rappresentava una donna nell’atto di riattaccarsi la scarpa, e una parte di torso, di cui restavano solo i due seni, «dalla base del collo fino a sopra l’ombelico. Uno dei due seni è velato, l’altro scoperto. Che tette! Dio santo! che tetta! È tondo-mela, piena, abbondante, staccata dall’altra e pesante nella mano. Ci sono lì maternità feconde e dolcezze d’amore da far morire. La pioggia e il sole hanno reso giallo biondo quel marmo bianco. È di un tono fulvo che lo fa assomigliare quasi alla carne. È così tranquillo e così nobile! Si direbbe che sta per gonfiarsi e che i polmoni che ha sotto vogliono riempirsi e respirare.  Come porta bene il suo drappeggio a pieghe fitte, come ci si sarebbe rotolati là sopra piangendo, come si sarebbe caduti dinanzi, in ginocchio, incrociando le mani! Ho sentito là davanti la bellezza dell’espressione “stupet aeris (1)”. Un po’ più avrei pianto. È che ci sono, signore, tante specie di tette differenti. C’è la tetta mela, la tetta pera, la tetta lubrica, la tetta pudica, e quant’altro. C’è quella che è creata per i conducenti di diligenza, la grossa e schietta tetta rotonda che si tira fuori da dentro una maglia grigia, dove si tiene là bene al caldo, gagliarda e dura. C’è la tetta del boulevard, stanca, flaccida e tiepida, ballonzolante nella crinolina, tetta che si mostra alle candele, che appare tra il nero del satin, sulla quale si strofina il cazzo, e che sparisce presto. Ci sono due terzi di tetta visti alla luce dei lampadari sull’orlo dei palchi di teatro, tette bianche e il cui arco sembra smisurato come il desiderio che ti mandano. Hanno un buon profumo, quelle; scaldano la guancia e fanno battere il cuore. Sullo splendore della loro pelle risplende l’orgoglio, sono ricche e sembrano dirti con disdegno: “Fatti una sega, povero diavolo, fatti una sega, fatti una sega”. C’è ancora la tetta mammella, appuntita, orgiastica, canaglia, fatta come una zucca da giardiniere per mettere semi, sottile di base, allungata, grossa in cima. È quella della donna che si scopa alla pecorina, tutta nuda, davanti a una vecchia psiche (2) impiallacciata in acagiù. C’è la tetta rinsecchita della negra che pende come un sacco. È asciutta come il deserto e vuota come lui. C’è la tetta della ragazza che arriva dal suo paese, né mela, né pera, ma carina, perbene, fatta per ispirare desideri e come una tetta deve essere. C’è anche la tetta della signora, considerata solamente come parte sensibile, quella riceve gomitate nei tafferugli, e travi, in pieno, in mezzo alle vie. Contribuisce unicamente all’abbellimento della persona e accerta il sesso.» (Traduzione mia)

  1. Orazio, libro I, satira IV: “stupet Albius aere” (Albio va in estasi davanti ai bronzi).
  2. (Specchio inclinabile.

Intervista di Anna Brandiferro

Ringrazio Anna Brandiferro e certastampa.it nella persona della sua direttrice Elisabetta Di Carlo.

PAGINE&PAROLE / «NON SI TRADUCE PER MESTIERE, LO SI FA PER AMORE» ANNA BRANDIFERRO INTERVISTA ROBERTO MICHILLI Pubblicato: 04 Giugno 2019

Roberto Michilli è nato a Campli nel 1949. Vive a Teramo. Ha pubblicato le raccolte di poesie Aprire un giorno, Attraverso la vita, Nuovi versi, i romanzi Desideri, Fate il vostro gioco, La più bella del reame, Il sogno di ogni uomo, Atlante con figure, L’attesa della felicità. È presente nei libri collettivi di poesia 4 poeti abruzzesi (2004) e L’orma lieve (2011). Si interessa di letteratura francese e russa del XIX secolo. Ha tradotto e curato una raccolta delle poesie di Lermontov (Quaranta poesie). Nel 2014 il libro ha ricevuto la Menzione d’Onore alla VIII edizione del premio letterario internazionale “Russia-Italia. Attraverso i secoli”. È nella giuria del premio Teramo dal 2006, e dal 2007 al 2012 ha curato la rassegna “Perché i poeti…”, inserita nel progetto culturale “Teramo città aperta al mondo”. Dal 2010 ha un blog: larmegliamori.wordpress.com.

Roberto, da Lermontov a Flaubert,  perché hai deciso di tradurre “La leggenda di San Giuliano l’ospitaliere ?

Con i libri su Lérmontov e Flaubert, e prima ancora con quello su Pontiggia, ho pagato antichi debiti di gratitudine verso autori che mi hanno toccato profondamente con le loro opere e sono stati importanti per la mia formazione. Lérmontov e Flaubert mi hanno emozionato nell’adolescenza e da allora li porto sempre con me; Pontiggia è venuto dopo. Lo considero il più importante scrittore italiano del secondo Novecento, e già  ne ammiravo le opere quando ancora  non avevo cominciato a scrivere. Per me svettava al di sopra di tutti i suoi contemporanei per cultura, stile e tecnica. Ma poi, nel momento in cui ho iniziato il mio apprendistato di scrittore, è diventato un punto di riferimento imprescindibile, e un maestro saggio e sapiente attraverso i suoi scritti. Con la mia vittoria nel Premio Teramo ho avuto la fortuna di conoscerlo, ed è nata tra noi un’amicizia crudelmente interrotta dalla sua morte improvvisa e prematura.  Ha fatto in tempo ad ogni modo a diventare un Maestro in carne e ossa, perché parlandoci e intrattenendo con lui una corrispondenza  ho potuto costruirmi una mia personale concezione della scrittura, capire che cosa scrivere e come farlo.Il passaggio dal russo al francese è dovuto semplicemente al passaggio da un autore all’altro. Ne avrei altri ai quali rendere omaggio, Byron e Stendhal, per citare dei nomi, ma dubito che riuscirò a farlo. I due libri su Lemontov e quello su Flaubert mi sono costati nove anni di intensissimo lavoro, e oggi non mi sento più le energie necessarie per intraprendere  avventure del genere. Non si traduce per mestiere lo si fa per amore di un autore e della sua lingua, e anche perché non ci convincono le traduzioni esistenti. Nel caso di Flaubert, La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere, come credo di avere dimostrato nel mio libro, nasconde profondità inimmaginabili sotto la sua apparenza di favola ingenua e lo smalto da miniatura di codice medievale. È in realtà un testo complesso, febbrile, enigmatico, ambiguo e crudele, e proprio per questo coinvolgente, indecifrabile, inquietante. Un testo  che permette di scrutare negli abissi dell’opera e della vita di Flaubert, e forse non solo della sua, e che pertanto ha bisogno di una traduzione precisa, attenta, che metta in evidenza tutte le numerose particolarità lessicali e stilistiche di cui si è servito Flaubert e soprattutto traduca  quello che lui ha scritto e solo quello. Tutto questo a mio avviso non si riscontra nelle pur numerose traduzioni esistenti, che in alcuni casi sembrano tirate via e in molti altri si permettono licenze ingiustificabili. Traduco da quando ero ragazzo. Ho cominciato a diciassette anni aiutando un amico che stava preparando la tesi a tradurre un libro di matematica dall’inglese, e non ho mai smesso.  Ho potuto formarmi così per mezzo di una lunga esperienza e di studi specifici una mia idea di come si debba tradurre, e cioè rispettando in modo assoluto il testo di partenza, e con umiltà  e spirito di servizio nei confronti dell’autore. Tradurre è stato un aspetto importante della mia formazione come scrittore. Un esercizio che raccomando a chiunque si voglia mettere su questa impervia strada. Molte delle traduzioni intraprese non le ho portate a termine: L’isola del tesoro, Madame Bovary, i racconti di Hemingway e quelli di Villier de L’Isle-Adam, ma l’esercizio è stato in ogni caso di grandissima utilità.   

Roberto Michilli nasce come poeta poi passa ai racconti e  infine ai romanzi, ma scrivi ancora poesie?

Ci tengo a precisare che non sono un poeta, ma solo un narratore che in un certo periodo della sua vita ha scritto dei versi e poi, rinsavito, ha smesso. Questo è un tempo di povertà. Ci sono alcuni milioni di poeti o sedicenti tali, in circolazione, però la stragrande maggior parte di loro ha risposto a chiamate che nessuno si è sognato di fare. Nell’insieme creano un rumore di fondo che copre anche le poche voci originali. Meglio tenersi alla larga dal mucchio selvaggio. 

Tiziano Scarpa, che ha curato la prefazione del tuo libro “Atlante con figure”,  ha scritto “ogni oggetto che Michilli recupera nella memoria…è al tempo stesso struggente e implacabile, perché è un lenimento e una ferita; è una visione dolce e un bagliore lancinante; è una commozione e una disperazione…” che ne pensi?              

Tiziano ha scritto cose estremamente lusinghiere su quel mio lavoro, ma sono considerazioni di un critico benevolo che lo guarda dall’esterno. Per quanto mi riguarda, in Atlante ho raccolto avvenimenti ed emozioni da essi suscitate che porto scritti nella carne. Molto più di semplici ricordi, pertanto. Marcel Proust ha scritto che tutti potremmo essere grandi scrittori se solo avessimo la capacità di ripiegarci su noi stessi per sforzarci di ritrovare sopra la nostra anima i segni che ci ha lasciato la vita, l’infanzia soprattutto. È un’operazione difficile e dolorosa, lo posso testimoniare. Ho dovuto aspettare anni prima di trovare il coraggio e la forza per affrontare e descrivere alcune situazioni che anche a distanza di decenni mi emozionavano e mi commuovevano. E mi commuovo e mi emoziono ancora adesso rileggendoli, perché il libro racconta un mondo ormai scomparso, e negli ultimi anni se ne sono andati alcuni dei pochi preziosi amici di quegli anni che insieme a me ancora lo ricordano. Un altro lettore di eccezione, il filosofo Fabio Brotto, che  mi segue fin dai tempi di Desideri, il mio romanzo d’esordio, ha colto questo aspetto del mio lavoro, forse per consonanza anagrafica, visto che siamo coetanei: “Michilli è spinto a scrivere dei suoi anni di bambino e ragazzo da un insopprimibile bisogno di salvare, nell’unico modo possibile, un mondo…Quel mondo perduto rimane nella memoria di chi lo ha vissuto, vive ancora una sua vita crepuscolare nella sua memoria, e come realtà vivente sparirà con lui. E qua e là in Atlante con figure Michilli ci fa capire che, insieme a quel mondo, è tramontata anche la sua felicità”.

Anna Brandiferro

La casa di Flaubert

Dipinto di René Thomsen (1897, Bibliothèque municipale de Rouen).

La casa di Flaubert a Croisset (Senna Marittima, a qualche chilometro da Rouen) con, a sinistra, il  piccolo padiglione sul bordo della Senna, utilizzato da Gustave per i bagni e per momenti di relax durante la bella stagione.

La casa fu acquistata, al prezzo di 95.000 franchi, dal dottor Achille-Cléophas Flaubert, padre di Gustave, tra aprile e maggio  del 1844. Tra lunedì 10 e venerdì 14 giugno dello stesso anno la famiglia Flaubert si installa a Croisset, nella grande casa in riva alla Senna che da questo momento in poi sarà per Gustave il punto fisso di una esistenza da solitario, interrotta tuttavia da viaggi e lunghi soggiorni a Parigi. Secondo le testimonianze di tutti i contemporanei che ebbero il privilegio di esservi ricevuti, il luogo, così come la casa, erano incantevoli. Maupassant, Zola, i fratelli Goncourt, George Sand lo descrivono come un luogo magico. In questo piccolo paradiso Gustave passerà i giorni più sereni della sua vita e comporrà la quasi totalità delle sue opere. «Casa di scrittore» scrive Bernard Fauconnier (Flaubert, p. 53), «il luogo dei sogni, dei dubbi, dei rituali di scrittura, delle orge d’entusiasmo e delle crisi di disperazione, cornice per trentacinque anni di questa straordinaria avventura interiore.» L’anima di questa casa è lo studio di Gustave, un grande vano che ne occupa tutto un angolo. Lì, scrive George Sand, Flaubert «vivrà come un canonico». Nel 1884, in un articolo su «La revue blanche», Guy de Maupassant lo farà rivivere: «Il suo studio apriva tre finestre sul giardino e due sul fiume. Era molto vasto, non avendo per ornamento che libri, alcuni ritratti di amici e alcuni ricordi di viaggio: corpi di giovani caimani seccati, un piede di mummia che un domestico ingenuo aveva lucidato come uno stivale e restato nero, rosari d’ambra d’Oriente, una statuina di Budda dorata, che dominava il grande tavolo da lavoro, e che guardava con i suoi lunghi occhi, un ammirevole busto di Pradier raffigurante la sorella di Gustave, Caroline Flaubert […]»

Il 18 maggio 1881 Caroline Commanville, nominata da Gustave Flaubert sua erede universale, vende la casa di Croisset. I 180.000 franchi che ne ricava le serviranno per pagare parte dei tanti debiti del marito. La grande villa bianca dal muro tappezzato di rose, così cara a Gustave, è subito demolita e al suo posto nel 1882 viene costruita una distilleria, rimpiazzata, nel 1922, da una fabbrica di pasta di legno e carta che resta in attività fino agli anni ‘80 del Novecento. Dalla distruzione si salva solo il piccolo padiglione sul bordo della Senna. Nel 1904, per iniziativa di Jean Revel, viene aperta una sottoscrizione per ricomprarlo e trasformarlo in un museo. Inaugurato il 17 giugno 1906, il museo Flaubert è oggi annesso alla Biblioteca municipale di Rouen.

Intervista di Anna Fusaro su San Giuliano

«il Centro», lunedì 1 aprile 2019

«Traduco Flaubert la sua “Leggenda”  è la mia ossessione» 

Lo scrittore teramano pubblica con Di Felice la nuova traduzione «del racconto perfetto»  di Anna Fusaro. 1 aprile 2019

TERAMO . «Flaubert è una mia ossessione antica, come Lermontov. Scrittori incontrati nell’adolescenza che ho continuato a frequentare nella vita adulta. Lessi il racconto di Flaubert cinquant’anni fa e provai subito una sensazione di turbamento, percependo qualcosa sotto la perfetta superficie del testo. Da allora non ho mai smesso di interrogarmi su di esso fino a quando, nel 2010, ho progettato questo lavoro». Lo scrittore abruzzese Roberto Michilli parla con trasporto dell’ossessione per Gustave Flaubert e in particolare per uno dei suoi tre testi brevi, “La leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere”, pubblicato nei “Trois contes” nel 1877, che ha tradotto per Di Felice Edizioni. Il libro (stesso titolo dell’originale, 483 pagine, 26 euro) propone la traduzione di Michilli (28 pagine) con testo originale a fronte e un corposo, colto e documentatissimo saggio dell’autore camplese sulle risposte offerte al mistero del racconto flaubertiano da una cinquantina di studiosi attratti (e turbati) da esso. Stanno qui importanza e originalità di un’operazione, coraggiosamente sposata dall’editrice abruzzese Valeria Di Felice, che sonda uno degli enigmi della letteratura. Perché Flaubert racconta la storia del santo parricida e matricida? Perché impiega trent’anni a scriverla da quando, 23enne, è folgorato dalla raffigurazione (riprodotta in copertina) sulle vetrate della cattedrale della natìa Rouen dell’atrocità commessa da Giuliano? 
Il protagonista della leggenda medioevale alla fonte del racconto è il figlio di un signorotto che passa il tempo cacciando per il puro gusto di sterminare animali. Dopo aver colpito a morte un cervo, la compagna e il loro piccolo, viene maledetto dal cervo morente che gli annuncia che un giorno ucciderà il padre e la madre. Anni dopo Giuliano massacrerà al buio i genitori pensando che i due corpi nel suo letto siano quelli della moglie e di un amante. 
Fattosi mendicante, passerà il resto della vita a espiare, fino all’incontro con Cristo nei panni di un lebbroso. Leggenda frequentata da pittori come Masolino da Panicale fino alla rilettura contemporanea di Yorgos Lanthimos nel film “Il sacrificio del cervo sacro”, la breve storia raccontata da Flaubert ha suscitato in Michilli molti interrogativi. «Come scrivono Proust e Joyce, “La leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere” è l’opera più perfetta di Flaubert, che scrisse solo capolavori. Sembra un ingenuo racconto di fate, ma trasparenza e semplicità sono solo apparenti. Questo racconto è come il monolite di “2001: Odissea nello spazio”, perfetto nella forma esteriore e misterioso nell’essenza. Nella mia indagine mi sono sentito confortato dal fatto che tanti studiosi, critici, scrittori avessero provato la mia stessa sensazione di disagio».
A quale conclusione è giunto? Cosa voleva dire Flaubert con la storia di Giuliano?
«Flaubert “è” tutti i suoi personaggi, ma forse in Julien c’è di lui più che in tutti gli altri. Nel racconto c’è qualcosa di più riposto. Il sentimento di insofferenza, se non odio, verso la figura paterna. Simbolicamente Flaubert proietta nelle pagine il desiderio subliminale di uccidere il padre. Formalmente il testo è una meraviglia, un capolavoro da una semplice leggenda. Ma s’intuisce qualcosa di personale. Flaubert ha voluto dirci di aver sofferto da bambino, di essersi sentito non accettato. Era il secondo figlio del chirurgo Achille, che aveva già l’erede maschio, il primogenito Achille, bravissimo, destinato a fare il medico pure lui. Gustave provò a fare l’avvocato, la stessa scrittura fu un ripiego. Il padre continuò a guardarlo come un fallito».
Com’è giunto a questa lettura psicoanalitica?
«Mi sono chiesto perché uno dei massimi scrittori di tutti i tempi, il più grande con Tolstoj e Proust, amato dagli scrittori, si sia portato dentro una storia per trent’anni, per poi scriverla nel momento peggiore della sua vita. Un momento di disperazione in cui, dopo lutti e perdite, si ritrovò in povertà. Sentiva di essere alla fine e di dover dire qualcosa che gli premeva dentro. Lui che non improvvisava mai e progettava ogni dettaglio dei suoi libri, circondato da un apparato di carte e appunti, scrive “La leggenda” in una stanza d’albergo di un paese bretone sull’Atlantico senza documentazione. Solo penna, inchiostro, carta».
Nel tradurre il testo ha tenuto conto del sottotesto e delle analisi degli altri studiosi?
«Tradurre per me è un modo di appropriarmi di un testo. Nelle tre traduzioni precedenti (Ferrari nel ’27, Agosti ’83, Itri ’94, ndc) non viene intuita la bellezza della dimensione nascosta del racconto. Un mondo nascosto di cui Sartre dice qualcosa. Nel saggio mi confronto con una cinquantina di studi di autori mai tradotti in Italia. Ho potuto tener conto di tante implicazioni, anche stilistiche, e interpretazioni, avendo più tempo di un traduttore di professione».
Pensa di tradurre e ripubblicare gli altri due testi dei “Trois contes”, “Un cuore semplice” e “Erodiade”? 
«No. Li ho già tradotti, sono bellissimi, ma non hanno avuto in me la stessa risonanza della “Leggenda”». 

Roberto Michilli (Campli,1949) vive a Teramo. 
Ha pubblicato: le raccolte di poesie Aprire un giorno (1996), Attraverso la vita (prefazione Giuseppe Pontiggia, 2001), Nuovi versi (2004); i romanzi Desideri (2005), Fate il vostro gioco (2008), La più bella del reame (2011), Il sogno di ogni uomo (2013), Atlante con figure (prefazione Tiziano Scarpa, 2016), L’attesa della felicità (2018). 
Cultore di letteratura francese e russa dell’Ottocento, ha tradotto e curato la raccolta delle poesie di Lermontov: “Michail Jur’evič Lermontov, Quaranta poesie” (2014), menzione d’onore all’8° Premio letterario internazionale “Russia-Italia. Attraverso i secoli”. Di Lermontov ha scritto anche la prima biografia edita in Italia: “Il prigioniero. La vita, il tempo e le opere di Michail Jur’evič Lermontov (2015). Oltre che dal russo (Lermontov, Puškin, Tjutčev, Baratynskij, Achmatova, Mandelštam, Pasternak) ha tradotto dal francese, inglese, tedesco (Mallarmé, Verlaine, Byron, Keats, Goethe, Heine). Giurato del Premio Teramo dal 2006. 
Dal 2010 ha il blog larmegliamori.wordpress.com.



Roberto Michilli

Fabio Brotto sulla Leggenda di San Giuliano

FABIO BROTTO·MERCOLEDÌ 27 MARZO 2019

PICCOLA NOTA su LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO L’OSPITALIERE di Gustave Flaubert, traduzione e cura di Roberto Michilli.

Non inganni il titolo, questa pubblicata da Di Felice nel 2019 è un’opera di ampie proporzioni (483 pagine) che presenta all’inizio la traduzione del racconto flaubertiano (nuova, accuratissima, dello stesso Michilli) con testo a fronte, e poi un esame molto approfondito dello stesso, supportato da una grande mole di letture critiche e di citazioni degli interpreti che nel corso dei decenni si sono cimentati con la Légende, dei quali sono riportati molti passi rilevanti.

Mi sento di ripetere qui le parole che scrissi dopo la lettura de Il prigioniero, il libro di Michilli sul poeta russo Lermontov: l’analisi critica è evidentemente animata e sospinta da un lungo amore, da una fortissima passione. In questo caso traspaiono forse alcuni segni di vera e propria identificazione, tanta è la forza intellettuale riversata nello scavo delle radici da cui è scaturito il Julien. Il lettore ne è catturato.

Non riassumo la notissima vicenda, limitandomi a due aspetti, quelli che mi hanno fatto pensare. In primo luogo, Giuliano compie l’atto più tremendo che un essere umano possa compiere, uccide il padre e la madre. In secondo luogo, prima di compiere quell’atto, Giuliano appare come un cacciatore. Ma non è, a mio parere, assoggettabile ad una lettura freudiana, lacaniana, ecc. (ovvero lo è, lo è massicciamente stato, dati il prestigio e lo spazio che la cultura occidentale ha assegnato alla psicoanalisi, che è un complesso articolato e autorigenerantesi, come l’Idra, di mitologie ˗ e anche Michilli segue questa strada); e, d’altra parte, Giuliano non è affatto un cacciatore, ma un’altra cosa. Mi pare che il punto sia sfiorato a p. 301, dove Michilli chiama in causa Aimée Israel Pelletier, che ha visto come la caccia come la intende e pratica Julien sia una attività radicalmente antisociale. La caccia autentica invece è, fin dal suo sorgere agli albori dell’umanità, l’attività più radicalmente sociale. Da essa scaturiva il cibo per il gruppo umano, ma anche la cooperazione del sotto-gruppo dei cacciatori, con la seguente celebrazione narrativa delle imprese. La socialità della caccia è evidente anche quando il cacciatore agisce da solo: sia che miri al trofeo, sia che aspiri a procurare il necessario per una ricca cena, il cacciatore pensa sempre anche a quello che seguirà all’atto della caccia, e quello che seguirà è sempre sociale. La caccia, a differenza di quel che pensano gli animalisti, non è l’atto di uccidere un animale, altrimenti anche il macellaio sarebbe un cacciatore. Nella caccia, l’uccisione può anche mancare, perché la sua parte fondamentale è la ricerca e l’individuazione della preda. Il cacciatore si diverte anche se l’animale viene catturato vivo, o anche lasciato fuggire dopo averlo trovato. Vale anche nella pesca, con la pratica del catch and release. In ogni caso, la caccia è essenzialmente sociale. Giuliano invece caccia da solo. Ma caccia davvero? A parte il sostanziale irrealismo delle descrizioni flaubertiane dell’azione di caccia di Giuliano, da un lato è evidente che non di caccia si tratta, anche in un ambiente onirico, perché vi manca totalmente la parte fondamentale, ovvero la ricerca della selvaggina, perché essa qui si offre in abbondanza, cioè si offre a Giuliano; dall’altro vi è solo il massacro, e i corpi degli animali restano sul terreno, addirittura a mucchi. Inoltre c’è piena evidenza del fatto che non si tratta di veri animali, ma di umani travestiti da animali, come nelle fiabe: la con-fusione è totale. Ciò che accade è violenza indifferenziata scatenata, senza limite e misura, ovvero il caos. Altro che caccia! Qui, in forma di delirio paranoico, si mostra cosa comporta la violenza scatenata: il caos. Saltano le differenze: tutte, quelle tra padre e figlio, tra uomo e animale, tra vecchio e giovane, tra reale e irreale, tra vivo e cadavere.

Veniamo al parricidio. Mi pare evidente la profonda differenza tra il testo flaubertiano e tutte le opere che normalmente la critica richiama per evocare e indagare la problematica del rapporto al Padre di origine freudiana, a iniziare dalla celebre Lettera di Kafka. In tutti quei testi la figura del padre appare come quella di un uomo forte, che schiaccia il figlio e gli impedisce l’accesso alla virilità, generando quella catena di “castrazione”, senso di colpa, ecc., con cui la psicoanalisi da più di un secolo affligge l’Occidente (che questo sia di ogni padre reale è più che dubbio, ma si sa che, come tra gli altri ha sostenuto Hans Blumenberg, la psicoanalisi è nata per estensione del dato estratto dalla psicopatologia all’interezza dell’umano, e questa è la tabe che la mina). Ma il padre di Giuliano è un padre forte, è una pienezza che rende vuoto il figlio? No, secondo me questo padre pacifico (che fu guerriero un tempo, ma forse ciò è falso) non è un pieno, ma un vuoto. E un vuoto non può fornire al figlio nulla che faccia scattare l’imitazione. Infatti Giuliano non vuole essere come il padre, e meno che meno desidera la madre, quella specie di monaca. Il padre è vuoto e fallisce in questo: non ha nemici e non può consegnare al figlio un Nemico. Per questo, la carica di violenza latente in ogni umano nel protagonista del racconto flaubertiano non trova alcuno sfogo e cresce a dismisura, fino alle sue esplosioni oniriche. Qui il sesso non c’entra molto. Manca la figura del Nemico, o dei nemici, manca l’altro-nemico che consente quella che io chiamo l’autoidentificazione agonistica, fondamentale anche in una società feudale immaginaria. Ma, oltre al Nemico, manca a Giuliano l’altra figura che potrebbe innervare il racconto, e la definizione della sua personalità: il Rivale. La bellissima fanciulla che l’Imperatore gli dà in moglie non è oggetto della brama di un altro, non vi è alcuno che, desiderandola si opponga a Giuliano: essa quasi scende dal cielo, pur apparendo femmina concupiscibile. Dunque, il padre è un vuoto, e lo stesso omicidio avviene, per quanto sia descritto nella sua fisicità, nell’assenza di qualsiasi forza attribuibile al padre. Non è un potente come Laio che qui viene assassinato, ma un vecchio impotente e stremato, insieme alla stremata vecchia madre di Giuliano. Viene ucciso, essendo scambiato per il Rivale che non c’è, colui che è la causa di questa assenza.

Questo è un pensiero ancora grezzo. Ringrazio Roberto Michilli per avermelo fatto pensare.

Perché questo libro

Questo libro vuole coinvolgere il lettore nel tentativo di risolvere un mistero: perché uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi si porta dentro una storia per quarant’anni e passa, prova due volte a  scriverla ma poi lascia perdere e si decide infine a farlo davvero nel momento peggiore della sua vita? Perché in un momento così difficile per lui, sceglie di mettersi a scrivere proprio questo racconto?

Non solo: come può lo stesso scrittore, il più lontano da ogni forma di improvvisazione, abituato a documentarsi in modo persino esagerato sul soggetto che ha scelto, e poi a progettare l’opera fin nei più minuti dettagli e a lavorare nel suo amato studio circondato dai suoi libri, dai suoi appunti e dagli oggetti che gli sono cari, mettersi a scriverla in una stanza d’albergo in un paesino bretone affacciato sull’Atlantico, avendo con sé solo la penna, l’inchiostro e la carta?

E ancora: perché durante la stesura Gustave Flaubert si riferisce alla Leggenda parlandone come di una cosa da niente? «Non è niente di niente e non le attribuisco alcuna importanza»; «una sciocchezzuola medievale»; «una piccola stupidaggine, di cui la madre potrà permettere la lettura alla figlia»; «la mia piccola storiella (religioso-poetica e medievalmente rococò)»; «quest’opera edificante, che mi farà passare per “volgere al clericalismo”.» Non sarà che ne minimizza l’importanza per dissimulare il ruolo capitale rivestito invece per lui da questo racconto?

E infine: cosa c’è in questa storia del santo parricida che possa riguardare  Flaubert? Deve trattarsi di qualcosa alla quale lui attribuisce una eccezionale importanza, e deve aver pensato che è arrivato il momento di raccontarla perché si sente vicino alla fine e vuole finalmente liberarsi di questo grave peso. Flaubert è tutti i suoi personaggi, ma forse in Julien c’è di lui più che in tutti gli altri, e magari la sua storia è per molti aspetti anche quella del suo autore. Forse nell’interesse precoce e duraturo di Flaubert per la storia di Giuliano, c’è il segno di una analogia profonda, però censurata, respinta nelle profondità dell’inconscio. E il racconto impersonale della vita del santo potrebbe offrire allora allo scrittore la maschera più sicura per esprimere le sue ossessioni più personali.

Ma è così? Il libro invita il lettore curioso e appassionato di misteri a cercare da solo le risposte a queste e altre domande. Per aiutarlo, gli offre le risposte offerte da una lunga serie di studiosi che si sono sentiti attratti da questo racconto e gli hanno dedicato la loro attenzione. Confrontandosi con queste, accettandone alcune e respingendone altre, il lettore compie un suo personale percorso di ricerca che magari non lo porterà a risolvere il mistero, ma certo gli farà scoprire molte cose, e non solo su Flaubert.

Buon vento, Julien

Grazie per questi cinque anni insieme.
La tua compagnia mi ha aiutato a non abbandonarmi allo sconforto quando il terremoto mi ha portato via la casa, e grazie a te sono riuscito a sopportare i comportamenti meschini di persone che ritenevo amiche. Te ne sarò sempre grato.
Tu che sei il patrono di viaggiatori e pellegrini, proteggi, ti prego, quelli che mi sono cari nel viaggio pericoloso attraverso la vita.
Addio, e buona fortuna.

Di Felice Edizioni. 2019. 488 pagine. 26 Euro.

Siamo soli

 

Perdere tutto a poco a poco

Nous sommes seuls. Seuls, comme le Bédouin dans le désert. Il faut nous couvrir la figure, nous serrer dans nos manteaux et donner tête baissée dans l’ouragan — et toujours, incessamment, jusqu’à notre dernière goutte d’eau, jusqu’à la dernière palpitation de notre coeur. Quand nous crèverons, nous aurons cette consolation d’avoir fait du chemin, et d’avoir navigué dans le Grand.

Gustave Flaubert, à Louis Bouilhet, Croisset, dimanche, 3 heures, [30 septembre 1855].