Alfredo Fiorani su La più bella del reame

 

Alfredo Fiorani

 

 

-“Mi chiamo Viviana e sto per morire. Due anni fa mi hanno trovato un tumore alla mammella. Me l’hanno tolta. Poi ho fatto la radioterapia e la chemio. Ho sofferto tanto e perso tutti i capelli. Sembrava che ce l’avessi fatta, ma il male è tornato. Adesso è dovunque. I medici mi curano ancora, ma di guarire non c’è più speranza.”

Questo è l’incipit del romanzo di Roberto Michilli La più bella del reame (Galaad Edizioni, 2011, pagg. 286, € 14,00). In esso già si disegna il calvario di una donna colpita nella sua femminilità e il destino che l’aspetta. Viviana, la protagonista, è una giovane trentanovenne bella, disinibita, risoluta. Ora la cruda realtà la pone di fronte a se stessa. Nell’avvertire la vita scivolarle, nasce in lei l’esigenza di rivisitarla, quasi a volerla riflettere nel tentativo di scorgervi quanto di buono in essa c’è stato, quanto di salvabile, affinché possa rincuorare la propria coscienza per non dichiarare che è tutta da buttare. Così progetta di raccontare il suo vissuto. Approfittando dell’assenza del compagno, il 10 ottobre 1999 inizia la stesura. Sistemerà i ricordi in sette giorni (sette è il numero buddhista della completezza, sarà un caso?) su grandi quaderni. L’idea di “raccontarsi” le dà sollievo. Lasciare traccia di sé è anche un espediente per sopravvivere all’abisso dell’oblio.

Il matrimonio non è stato un granché. Un marito persosi stradafacendo, affogato nella depressione a seguito di un incidente sportivo. Solo le due figlie a conferire vera sostanza a quel legame. Il lavoro, qualche fantasia, la realtà sullo sfondo: la tragedia dello stadio di Heysel, l’incidente dello Shuttle, la caduta del muro di Berlino, l’attentato al giudice Falcone, l’arresto di Riina…  In quella grigia quotidianità ci fu un’impennata di serenità. Tutto cominciò a filare liscio, ma quando meno te l’aspetti cadono le tegole. E così avvenne. Il marito lascia Viviana per un’altra. Superato lo sconcerto iniziale, la routine ricircola negli alvei consueti: casa, lavoro, figlie, appena qualche svago. Poi, il ritorno dell’amore: inaspettato, in un giorno d’aprile. Era il 1990. Si chiamava Guido. Due anni felici. Una gravidanza voluta. Ancora, repentina, una virata della sorte: la perdita del bambino in un incidente automobilistico. Il rapporto con Guido s’incrina. Grazie ad un’amica, che la conduce da una fattucchiera nel tentativo di riconquistare Guido, si scopre che era affatturata. E qui la vicenda s’increspa intorno alla ricerca, quasi ossessiva, di nuove opportunità che le permettessero di strappare definitivamente l’amante alla moglie. La vita però le diventa uno stillicidio tra speranze e delusioni fomentate dalle varie maghe a cui si rivolge. Ma è sempre la stessa ritualità che non porta a nulla. Salvo uno sperpero di denaro, d’aspettative e di frustrazioni. Per poi finire nella rete di uno strozzino a cui si rivolge per un prestito salatissimo. D’improvviso il rapporto con l’amante s’interrompe bruscamente senza una ragione. Di Guido si perdono le tracce. Smaltito il dolore di quella perdita, con energia si riappropria dell’esistenza e si getta senza inibizioni nella vita. S’impone di «stare al mondo con tutta me stessa» e seguire i suoi demoni, come confesserà sull’orlo della morte. Il finale lo lasciamo alla scoperta del lettore.

Ciò che ci preme mettere in evidenza è la scrittura di Michilli: spedita, salvo qualche strettoia attraverso la quale la narrazione s’ingolfa. In fondo, a pensarci, diviene anche specchio della condotta di vita della protagonista, che passa tra le strette forche caudine della sorte. Nel racconto emerge tutta l’instabilità emotiva e l’incertezza della contemporaneità che s’affanna ad inseguire “falsi” idoli, ragioni evanescenti, retoriche ambizioni, vacui sentimentalismi. Tuttavia il dolore, sembra suggerirci l’Autore, è motivo di riflessione su se stessi e sul mondo “confinante”; c’è la presa di coscienza tutta personale che occorre affidarsi ai sentimenti puri, alle passioni sincere, alle scelte suggerite dal profondo poiché sono le sole a non lasciare scampo alla aleatorietà del sesso, del denaro, degli status symbol. E’ nella concretezza dei legami affettivi che si tollerano gli azzanni del destino. Difatti, Viviana/madre, non l’amante non l’impiegata non la virago, ogni volta torna col pensiero ai suoi gioielli, alle figlie, da cui ha ricevuto più di quanto ha dato. Ne prende consapevolezza proprio sul limite della vita, che è un po’ come stare in cima ad una montagna seduti ad osservare quanto accade e quanto è accaduto laggiù. La vista si allarga, si fa più acuta, ficcante. D’altronde, è dalle altezze che si colgono meglio le bassezze umane: fuori e dentro se stessi.

Pubblicato il 16 giugno 2012 sul sito del Corriere Peligno.

Leandro Di Donato su La più bella del reame

La più bella del reame
di Roberto Michilli

Il romanzo ha un incipit fulminante “Mi chiamo Viviana e sto per morire” a cui fa seguito l’abbassamento della tensione narrativa, che trova subito una nuova misura nella voce della protagonista che diventa piana, sussurro, melodia che predispone all’ascolto.
Il racconto incanta, scivola lento dando il tempo di assorbire atmosfere, ritmi e accadimenti.
Questa narrazione non potrebbe avere altra cifra: lo stile aderisce al racconto come un guanto alla mano.
La prima sfida vinta è la plausibilità della voce. Durante la lettura ci si dimentica che il romanzo, svolto da un io narrante femminile, è opera di uno scrittore. L’Autore riesce con grande maestria a dar conto delle emozioni, dei colori e dei toni del sentire al femminile, fino alla descrizione del desiderio sessuale. Una grande prova di scrittura e di controllo della materia narrativa.
Il romanzo prende le mosse dalla volontà della protagonista, malata terminale di tumore, di raccontare la propria vita, di lasciare la propria traccia.
Viviana comincia a scrivere la storia della sua vita, domenica 10 ottobre 1999 – anno di fine secolo e fine millennio, anno simbolico che segna un passaggio, un prima e un dopo – e conclude la sua fatica sette giorni dopo, la domenica 17 ottobre. Una vita che da ordinaria diventa, ad un certo punto, straordinaria. E questa dinamica ordinario/straordinario è il vero cuore del romanzo, il motore generativo della narrativa di Roberto Michilli.
Ma per chi scrivere la propria vita, si chiede Viviana? In fondo è la domanda che accompagna ogni scrittore. La risposta è una splendida definizione di letteratura, una delle più profonde e vere che mi sia capitato di leggere: “Forse nessuno leggerà, ma quello che importa è che ce ne sia la possibilità”, perché la vita raccontata con “sincerità ed onestà sarebbe la memoria vera dell’umanità”. Una definizione che richiama la lezione del filosofo Jacques Derrida sulla relazione vita/morte e sulla funzione della scrittura.
C’è un’altra riflessione di Viviana che contiene una verità generale, quasi un epitaffio di questi tempi avvitatisi sui canoni delle apparenze e sul primato della superficialità: “la bellezza è una malattia mortale”. Qui Michilli ci consegna una pagina che, al di là del romanzo, ci aiuta a riflettere su una parte della nostra, non del tutto trascorsa, storia recente che ha alimentato miti, sia pure di cartapesta, e nutrito sogni e ambizioni di troppi giovani che hanno creduto e ceduto alle lusinghe delle apparenze e delle scorciatoie facili e leggere per arrivare al successo, o a quel che per tale veniva e viene spacciato.
Le notizie del mondo e dal mondo arrivano a Viviana, come echi lontani, scorrono come sottotitoli.
Basso controcanto, colonna sonora intermittente di un piano posto al di sopra o su un piano sempre più altro, il piano di fuori, l’altrove senza più il suo dove.
Altro elemento caratteristico della scrittura di Michilli è l’attenzione agli odori, l’attestazione dell’esistenza di altre piste che non incrociamo. Una labile presenza che arriva come onda, poi sfugge, poi ritorna come bava di vento, presagio delle tante presenze che ci sfuggono, che non vediamo, che non conosciamo. Attenzione agli odori che, per contro, ci ricorda la nostra distratta acquiescenza ad una terribile assenza: ci siamo condannati a regalarci fiori che non odorano più.
La banda musicale che suscita echi d’infanzia, di una allegria semplice e piena, totale, che non ha increspature, che vive il tempo dell’esecuzione, che riempie le pieghe delle ore e gli echi quelle degli anni, è un’altra presenza importante nelle pagine di Michilli.
Altro elemento caratteristico è il microcosmo dell’ufficio, già raccontato in Desideri e ora indagato con gli “occhi” e la psicologia di una donna. Un nuovo racconto, uno sguardo d’angolo, diverso, una posizione altra che offre una diversa visione.
Il marito di Viviana, Ivan, è una figura defilata ma precisa, che non scompare mai. Le sue vicende fanno da contrappunto a quelle di Viviana. Il loro filo, cambia diversi colori e vibra con diverse forze di tensione, ma non si spezza mai. Una presenza, che sotto le apparenze dimesse, ha una sua forza ed esprime la necessità della sua presenza. Una metafora delle seconde possibilità della vita, l’occasione colta di un riscatto che ricostruisce la trama delle relazioni e delle opportunità.
Viviana ascoltando Violetta cantare nella Traviata la celebre aria che inizia con “ E’strano” scopre che il centro dell’amore, il solo vero grande amore è quello in cui si ama e si è amati.
Amare amando è il cerchio magico che riunisce le due unità esatte, la vera sezione aurea della vita, il ricongiungimento delle due grammatiche del vivere, la sintesi dell’ordinario e dello straordinario.
Questa notazione ci conduce al centro del lavoro di Roberto Michilli, a quella che a me pare la sua tematica d’elezione, il suo terreno d’analisi, il suo punto d’osservazione e cioè la dinamica ordinario straordinario. Queste sono infatti le due logiche, le due grammatiche che convivono in una danza senza fine, cedendosi reciprocamente il passo nelle scelte che determinano le vicende della vita. L’onda degli avvenimenti sale, si increspa la superficie, si flettono gli archi delle stabilità la cui rottura annuncia il cambiamento, l’emergere di un desiderio che impone la sua urgenza, la sua logica, il suo equilibrio (perché c’è un equilibrio dei desideri e nei desideri), i suoi tempi. Il desiderio sovverte l’ordine costituito, rompe le forme e gli assetti precedenti, sconvolge la gerarchie consolidate e si prepara a costruire un nuovo (provvisorio) equilibrio.
Così il soprannaturale sovverte il naturale, lo straordinario sovverte l’ordinario; l’irrazionale, il non detto o il non dicibile conquista la sua lingua. Il continente ribollente – come la pentola della maga – dei sentimenti trova lo sguardo che li rivela.
Il racconto accelera, cambia passo, si ribaltano gli assi che sorreggono le prospettive, si impone l’altra faccia della vita. La lingua dei sentimenti che diventano dicibili è la cerniera, il confine tra i due emisferi.
Questo andamento – che evoca la teoria piagettiana dello sviluppo psicologico e l’alternanza delle modalità di assimilazione e accomodamento – caratterizza tutto il romanzo e regala spesso delle sorprese, come quando scopriamo che il socio di un club privè è un impresario di pompe funebri. Ma non si tratta della riproposizione dell’abusato duello Eros Thanatos, quanto di uno scarto della narrazione dai binari prevedibili, l’elemento straordinario che rompe lo schema atteso.
Un’altra delle caratteristiche importanti della narrativa di Michilli è la scelta di ambientare i suoi romanzi in una piccola città di provincia. Scelta felice questa perché, lungi da ogni enfasi provincialistica o compiacimento localistico, permette di tratteggiare il particolare affresco sociale che restituisce le grandi coordinate generali e di leggere, in filigrana, i segni del tempo storico nella mentalità, nelle motivazioni dei comportamenti e nelle scelte dei personaggi del romanzo, tutti peraltro ben definiti e la cui comparsa nelle pagine dipana con coerenza il disegno complessivo del romanzo.
La parte finale, il congedo della protagonista ci consegna una grande domanda, che ha alimentato e alimenta fiumi d’inchiostro: la morte è ordinaria o straordinaria? La risposta, non filosofica né trascendente è affidata ad una splendida poesia i cui ultimi tre versi lasciano alla umanissima ricerca del nome delle cose il solo filo possibile della memoria.
Il libro ha una chiusura bellissima, degna dell’incipit: un ultimo sussulto d’amore, il piccolo attimo che fissa la sola eternità per noi possibile, la sola che possiamo pensare e perciò dire.
La lettura ci chiede un po’ di quella ricchezza finita, quella fonte non rinnovabile di vita che è il nostro tempo. Ricchezza limitata e perciò preziosa. La letteratura ci chiede vita, ma restituisce vita: quella dei personaggi che diventano amici – a volte amici veri e reali più di altri in carne ed ossa – e quella di luoghi e tempi che diventano anche nostri. La letteratura, quella vera e necessaria perché rispetta questo patto etico, ci chiede tempo e ci regala tempo; ci chiede un po’ della nostra vita, ci regala un po’ di vita per la nostra vita.
Un buon libro rompe l’equilibrio preesistente e, a lettura finita, lo ricompone con l’apporto di una nuova presenza. Il romanzo La più bella del reame fa proprio questo e per questo, come tutti i libri di Roberto Michilli, onora il patto etico fra scrittori e lettori.

Leandro Di Donato

Pubblicato il 4 gennaio 2012 sul “Cafè Letterando” di Galaad Edizioni

http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=448

Fabio Brotto su La più bella

Con il permesso dell’autore, che ringrazio, pubblico la nota di Fabio Brotto su La più bella del reame, apparsa il 30 novembre 2011 sul sito http://www.brotture.net:

 

La più bella del reame

Ho parlato del nuovo romanzo di Roberto Michilli (La più bella del reame, Galaad Edizioni 2011) col mio amico Alberto Astolfi. La conversazione registrata e trascritta qui, un po’ disorganica, mi sembra comunque cogliere alcuni nodi.

B. A me pare che questo romanzo di Michilli ponga varie questioni… Tu, caro Astolfi, come la vedi?

A. Per me la prima, e fondamentale circa La più bella del reame, è questa: perché il tempo in cui la protagonista e io narrante Viviana scrive la storia della sua vita (il tempo di una settimana) è posto nel 1999? Cambierebbe qualcosa se la vicenda finisse nel 2011?

B. Il lettore si pone inevitabilmente questa domanda. Tu come rispondi?

A. Fatico a trovare una risposta. Una, tuttavia, potrebbe essere questa: si tratta di una tipica vicenda umana di fine millennio. Come dire: una donna occidentale, italiana, dopo secoli di emancipazione, di scienza, ecc., alle soglie del nuovo millennio, si trova a questo punto. Il senso della vita è così… misero…

B. Misero? In effetti, Viviana sembra una donna solo superficialmente emancipata, e in ogni caso il suo grado di autonomia personale rispetto al contesto è limitato. Si sposa giovanissima con uno sportivo, ha due bambine ma il matrimonio va presto a rotoli. Lei si trova un lavoro, ma non si sogna minimamente di prendere l’iniziativa di una separazione. Quando questa verrà, sarà per iniziativa del marito. E tuttavia non prova alcuno scrupolo morale quando  comincia ad avere relazioni con colleghi di lavoro, anch’essi sposati. Il suo senso della vita è misero, povero di valori. O meglio: questo senso, l’idea di una pienezza, sta tutto nell’amore erotico, nell’amore passionale, la cui perfezione è nella reciprocità. Questo tipo di amore è per sua natura instabile, e per di più lei lo ricerca sempre con le persone sbagliate. E questo produce la sua infelicità. Secondo me, il 1999 si spiega col suo potere evocativo: è un numero di fine, non di inizio.

A. Forse hai ragione: infatti Viviana si mette a scrivere la storia della sua vita a 39 anni, malata gravemente da due, e vicina alla morte. So che tu sostieni che ben difficilmente nei romanzi compaiono come protagoniste donne che non siano belle e desiderabili. Michilli vede nella bellezza una sorta di condanna all’ infelicità. Lo dicono chiaramente anche le citazioni poste in esergo. E tuttavia questa non è certo la percezione sociale diffusa della bellezza, esaltata da tutti i media, e che è vista come un potere…

B. Sì, la bellezza è davvero un potere. Infatti seduce, ovvero porta i desideranti a compiacere in tutti i modi l’oggetto del desiderio, che può quindi utilizzare i desideranti per i suoi fini. Viviana scopre gradualmente questo potere, e infine, dopo i trent’anni, lo usa senza scrupoli, con una sfrenata mescolanza di eros ed interesse economico. Nella mia visione, tuttavia, il potere di seduzione è il fascino della vittima, il cui trionfo sta solo nello spazio del differimento del sacrificio, che prima o poi necessariamente avviene. Infatti tutta la storia del romanzo (e dell’opera lirica) è costellata di eroine bellissime e sacrificali.

A. Già, infatti non penso affatto che sia casuale, nel romanzo, la scoperta dell’opera lirica da parte di Viviana. E quella che lei adora è la Traviata, guarda caso… Mi piace il fatto che tutta la storia della vita di Viviana sia raccontata da lei stessa, con le sue modalità di pensiero e di espressione, di linguaggio, dal suo punto di vista. C’è una felice mimesi da parte di Michilli. Mi sembra che non appaia mai il punto di vista dello scrittore, sicché il mondo appare essere soltanto quello che esso è agli occhi di Viviana. Ad esempio, lei crede di essere vittima di una fattura, e lo crede fino alla fine. Questa donna contemporanea, che vive una tipica vita contemporanea, segnata da instabilità affettiva, disponibilità sessuale, mancanza di fede religiosa e di punti di riferimento culturali solidi, per risolvere il suo problema d’amore si rivolge a maghe e fattucchiere spendendo tutti i suoi denari. Personalmente, trovo l’intermezzo magico un po’ troppo lungo e particolareggiato, anche se non privo di senso.

B. Il senso ce l’ha, in effetti, secondo me. Il magico può essere declinato in molti modi, e la sua vicinanza al sacrificale è evidente: qui ci sono anche fatture mortali. Poi, Viviana non è una donna del Nord, è ancora parzialmente radicata in un mondo di credenze difficile da estirpare, che si trasforma ma non muore, e che duemila anni di Cristianesimo e di scienza hanno appena intaccato. Del resto, nei confronti delle rivali o dei nemici in genere, Viviana non è mai portata alla pacificazione o al perdono, quanto piuttosto alla vendetta. Si pensa emancipata, ma in fondo è arcaica. Dunque, il romanzo è scritto dal punto di vista della bella donna-vittima, che soggettivamente non esce dalla logica della vittimizzazione.

A. Però il suo ultimo rapporto, la relazione con Luca, che la prende con sé quando già lei è mortalmente malata, e la ama gratuitamente, mi sembra qualitativamente del tutto differente dalle altre numerose relazioni che lei ha vissuto nei suoi brevi anni. Luca non è una figura sacrificale, la sua logica è creativa e salvifica.

B. Direi di sì, anche se l’amore di Luca rimane per Viviana tutto e puramente immanente, tanto che le ultime righe mi sembrano avere una strana ambivalenza, tra il disperatamente vitalistico e il necrofilo.

A. Non ti sembra che quella di Viviana di fronte alla morte imminente sia la calma della vittima rassegnata e consenziente?

B. Il fatto è che qui appare il paradosso dell’io narrante, che è consustanziale a qualsiasi opera in cui il protagonista è anche la voce che racconta, compresa la Divina Commedia. Il lettore della Divina Commedia dà al narratore Dante un’assoluta fiducia, crede per principio alla veridicità delle sue parole, nel senso che pensa che Dante non intenda ingannare ma dire il vero. Il lettore della Coscienza di Zeno non concede invece alcuna fiducia del genere allo stesso Zeno, che è evidentemente inaffidabile. Tutte le narrazioni in cui parla un io che è anche personaggio si collocano tra questi due poli, e pongono il problema del rapporto tra un soggetto e la realtà di sé rappresentata. Ora, qui c’è però anche un’altra questione, oltre a quella della luce soggettiva in cui sono proiettati i fatti narrati. Michilli assume l’io narrante di Viviana, si cala cioè in una donna, e in una donna bellissima, che suscita il desiderio maschile. È un’operazione audace, e difficile. Quanto è affidabile il racconto di Viviana?

A. Quando uno scrittore assume il punto di vista di una donna, e assume il punto di vista di una donna bella, si pone nella soggettività di quello che per sé è un soggetto, mentre per lui è l’oggetto del suo desiderio. Tuttavia gli scrittori hanno sempre creato personaggi femminili, e viceversa le scrittrici personaggi maschili. Il problema è se lo sguardo femminile possa essere assunto dall’interno, se un maschio possa vedere il mondo con gli occhi di una femmina, e viceversa.

B. Io credo che questa sfida sia ardua. In ogni caso, a me Viviana appare convincente come donna, anche se questo giudizio è dubbio, essendo io un uomo. L’unica cosa che non mi convince è la chiusa del romanzo. Penso che una mente femminile non avrebbe saputo concepirla. E non so se sia l’indicazione di un limite o un complimento.