L’oggetto, che taluno chiama anche “graffa”, “clip” o “attàche”, è costruito con lucente filo metallico (zinco-cromo?), opportunamente sagomato.
La sua forma potrebbe ricordare una casa alta e stretta, col tetto a capanna, avente sulla facciata una porta aperta che ripete il disegno della copertura; oppure due case viste in prospettiva, la più bassa davanti; o, ancora, una successione di due montagne, dai ripidi, precipiti fianchi; oppure, più modestamente, una doppia punta di lancia o di freccia.
Il tatto racconta di due vuoti, uno più vasto dell’altro, incorniciati, delimitati e forse protetti da un confine sottile, liscio e duro, per lungo tratto doppio come un binario ravvicinato; due asperità laterali minacciano dolore; all’inizio dell’esame, l’oggetto era freddo e scostante, poi ha rubato calore dalle dita che lo sostenevano, e s’è fatto tiepido, gentile, gradevole da maneggiare.
All’odorato si apprezza un lievissimo sentore di metallo.
Se lo si tiene in bocca, anche la lingua è portata a seguire le cornici e a individuare due spazi, uno più esteso prima, un altro più breve dopo; tenutovi sopra per qualche secondo, l’oggetto stimola la produzione di saliva; dopo averlo tolto, persiste a lungo sull’organo del gusto il suo ricordo, somatizzato in un senso di fresco pizzicore.
Non emette suoni: accostato all’orecchio e sollecitato con l’unghia rimane sordo.
E’ raro che se ne stia da solo; quando ancora vive nella scatola di cartone verde, ha la compagnia dei suoi numerosi fratelli; si assomigliano tanto, che è difficile se non del tutto impossibile distinguerli l’uno dall’altro; anche quando esce allo scoperto e attende in ciotole, posacenere e contenitori d’ogni tipo d’essere chiamato a svolgere la sua funzione è quasi sempre insieme ad altri, anche se stavolta è improbabile che i suoi colleghi siano tutti della sua stessa marca, forma e misura; è molto frequente, infatti, in queste oasi tranquille, la pacifica convivenza di individui aventi dimensioni o forme diverse oppure costruiti in altri materiali; sono stati ad esempio osservati esemplari in cui il filo di metallo è rivestito da una guaina di materiale plastico in diversi colori, così come in altri il filo è dorato, sì da farli apparire simili a gioielli, il cui uso è, con ogni probabilità, riservato ad occasioni particolari.
Il fatto che esistono individui aventi identica forma e dissimili solo nelle dimensioni, potrebbe indurre a ipotizzare una forma di vita silente, nei nostri oggetti, che li porta a evolvere nel tempo, facendoli crescere e sviluppare; non appare peregrino, in questa ottica, postulare anche una loro nascita e una successiva estinzione. Per quanto azzardata, rientrerebbe nell’orizzonte del possibile anche l’eventualità che quest’oggetto lucente abbia una sua vita sessuale.
La sua vocazione è riunire; è un pastore: odia le cose sparse, discinte, sfrangiate; è per l’ordine, la vicinanza, la comunione.
Trattiene, ma senza imprigionare: è sempre disposto a cedere ciò che ha, se lo si tratta con gentilezza.
L’esercizio delle sue funzioni è reso possibile dalla naturale elasticità del metallo, esaltata dalla trafilatura e dalla successiva costrizione nella forma. Le due punte di freccia, infatti, possono essere scostate per un apprezzabile tratto senza che l’oggetto perda la sua integrità; tende invece a ricomporre la fattezza originaria, opponendo una forza fatta di pura essenza formale alla trazione, pronto a rientrare nella idea di se stesso.
Tale elasticità gli permette di stringere tra le frecce, e ivi di trattenerli, fogli d’ogni tipo, così come fotografie, assegni, banconote e biglietti.
Quando esegue i suoi compiti, il fermaglio cambia aspetto. Le frecce, infatti, si dividono, separate dal o dai fogli interposti; gli spazi all’interno delle cornici non sono più vuoti, ora, ma racchiudono un’area che ha il colore e la consistenza del foglio fermato, più vasta da un lato, meno dall’altra.
Un tempo, capitava di frequente che individui della specie avessero la possibilità di viaggiare per lavoro. Racchiusi, insieme ai fogli trattenuti, in appositi involucri, venivano spediti un po’ dovunque, finanche all’estero o in paesi esotici. L’avvento di macchine automatiche per lo smistamento della corrispondenza, ha fatto sì che le amministrazioni preposte decidessero di sconsigliare l’uso dei nostri oggetti, perché il loro spessore e la loro durezza metallica avrebbero potuto creare nocumento alle veloci ma delicate apparecchiature.
Non è raro che alcuni soggetti vengano distolti dalla loro funzione originaria per essere utilizzati in altri modi; non sono pochi, infatti, quelli che amano giocherellare con essi, disperdendo in tal modo ansie e tensioni; va comunque rilevato che quasi sempre tali manipolazioni si concludono con la distruzione dell’oggetto, o almeno con la dissoluzione della sua forma originaria, peraltro unica artefice e insieme garanzia della sua funzione. In alcuni casi, però, tali manovre non sono il frutto di una incosciente proiezione sull’oggetto di nostri stati emozionali, quanto una cosciente ricerca di nuove forme, ergo di nuove funzioni, utilità altre in rinnovate epifanie.
Se infatti si tiene ferma tra pollice e indice della mano destra la punta più lunga, e contemporaneamente si inserisce l’unghia del pollice sinistro sotto la punta interna; se a questo punto si applica una trazione sufficiente a sollevare quest’ultima di circa un centimetro, senza preoccuparsi se all’inizio dell’operazione la punta tenuta nella destra tenderà a incastrarsi anch’essa sotto l’unghia, ma anzi assecondando tale slittamento; se si inseriscono adesso le punte dei due pollici nello spazio così creato per vincere la naturale elasticità del metallo e allargarle fino a formare un angolo di 180°, ci si ritroverà in mano un gancio a forma di “esse” allungata, stato intermedio della metamorfosi, già in sé utile per molti usi.
Se avendo come punto di partenza il gancio a forma di “esse” allungata ottenuto con la manovra sopra descritta, si impugna ora la punta più grande, stringendola saldamente tra la prima falange del pollice e la seconda dell’indice della mano destra, e si inserisce la punta del pollice sinistro all’interno della freccia più piccola, con la punta dell’indice posata sull’estremità sinistra della stessa, basterà spingere in alto col pollice sinistro, facendo perno sull’indice della stessa mano, per sollevare il bordino metallico e distenderlo del tutto; si potrà rifinire il lavoro con alcuni tocchi di pollice e indice sinistri operanti in amichevole collaborazione.
Avremo così ottenuto un punteruolo munito di manico, con una lama lunga mm 40, di rara utilità per dovizia di usi, spazianti dal nettapipe all’arnese da scasso.
Si potrà, volendo, ripetere in seguito la manovra anche dal lato della punta più lunga, ora manico del punteruolo. In questo caso, ci si ritroverà, ad operazione eseguita, ad avere in mano un gradino metallico di 7 mm, con due bracci di lunghezza diseguale ai lati; quello già noto di mm 40 e un altro di mm 60. Se si stringono ora i due bracci metallici tra le punte di pollice e indice di ciascuna mano, si otterrà una specie di manovella, che può essere fatta ruotare nei momenti di inazione al posto dei pollici.
Resta ora da compiere l’ultimo passo; le manovre occorrenti richiedono all’operatore forza e perizia: il ferro, che s’è mostrato sempre accondiscendente alle operazioni finora eseguite, resisterà, infatti, a quest’ultima, definitiva metamorfosi, e sarà praticamente impossibile ottenere un risultato perfetto.
Procederemo dunque a raddrizzare anche il gradino. Nella fase intermedia, ci ritroveremo per le mani una grande lettera “L” maiuscola, per la quale possono essere di certo trovati utili usi.
Alla fine, torneremo all’origine, come è giusto e bello che accada, e avremo davanti un filo metallico di lucente color argento, del diametro di mm 1 e della lunghezza di mm 105.
(2001)