Il cameriere mi guarda. Sta raccogliendo i bicchieri vuoti da un tavolo accanto al mio, ma guarda me. Del resto, è già mezz’ora che sto seduto e ancora non ho ordinato niente. Quando sono entrato e m’è venuto vicino, gli ho detto che aspettavo un amico, ed è la verità. Solo che l’amico ritarda, e davvero non so spiegarmi il perché, visto che è stato lui a telefonarmi a casa e a chiedermi di vederci qui. Scrivo per ingannare l’attesa. Giro sempre con un taccuino addosso. Troppe idee e pensieri mi sono scappati per sempre perché non li ho fissati, così mi sono attrezzato. In tasca ho anche un piccolo registratore, ma non mi sembra il caso di mettermi a dettare, adesso.
Il cameriere mi passa accanto col vassoio su cui ha sistemato i bicchieri vuoti. Mi lancia un’altra occhiata. Forse è il caso che mi decida a fargli quest’ordinazione, così la smetterà di puntarmi.
Fatto. Ho chiesto un punch al cioccolato. Mi sembra che una cosa calda ci stia bene. Siamo ai primi d’ottobre, ma fa già molto freddo, e piove, accidenti, piove da due giorni ormai. Sono seduto accanto a una vetrata e a pochi centimetri dalla mia faccia il vetro è coperto da minute gocce d’acqua. Ogni tanto una più gonfia delle altre comincia a mostrare segni d’irrequietezza, finché pian piano si muove. All’inizio è un cammino lento e incerto il suo, ma poi raggiunge un’altra goccia, si unisce a lei e fatta più grande e più pesante si rimette in moto con maggior sicurezza. Tocca così una terza goccia, una quarta e si forma infine un rivolo che scorre sempre più veloce sul vetro, fino a smarrirsi in una scanalatura del telaio di ferro. Per qualche minuto seguo con lo sguardo alcuni di questi minimi eventi.
Mia moglie s’è meravigliata vedendomi uscire dopo cena. In una sera come questa, poi. Non esco quasi mai, in effetti. Giusto ogni due o tre mesi per una cena con gli amici fotografi e qualche volta per andare al cinema, ma devono fare uno di quei film imperdibili, perché m’è duro rivestirmi una volta che sono rientrato a casa e mi sono messo comodo.
Ma è stato Johnny a chiedermelo, e a lui certo non potevo dire di no. Meno male che ha risposto mia figlia al telefono, così sanno che è stato davvero il mio amico a telefonarmi, sennò mia moglie chissà che poteva pensare.
Mi ha guardato lo stesso in un certo modo… Ha antenne sensibili, lei. Mi ha chiesto: – E’ successo qualcosa? Le ho detto di no, ma non lo sapevo cos’era successo. Johnny mi aveva detto solo: – Ho bisogno di parlarti. E senza lasciarmi il tempo di dire niente aveva aggiunto: – E’ una cosa seria. Vediamoci alle dieci al bar che sta davanti all’ingresso del porto. Parlava rapido; aveva una voce strana, tesa, più acuta del solito.
Il cameriere mi ha appena portato il punch. Ne ho bevuto un sorso un po’ troppo abbondante e mi sono scottato la lingua. Non ci voleva, cazzo; non mi fa molto male, ma adesso non farò che sentirmi ‘sta cavolo di lingua strana, e sarò nervoso. Già avevo il pensiero dei piedi bagnati a preoccuparmi. Sì, ho le scarpe con la suola di gomma, porto sempre scarpe di questo tipo, del resto, ed è anche vero che la suola è bella spessa, ma basta l’idea di aver camminato sul terreno bagnato a farmi sentire i piedi umidi. Sembra folle, lo so, ma ognuno ha le sue fisime. Io sono fatto così, e ho imparato ad accettarmi e Dio sa se è stato facile.
Ho appena guardato l’orologio. Manca un quarto alle undici. Comincio a preoccuparmi. Per un istante ho pensato di chiamare Johnny a casa, ma poi mi sono detto che era meglio non farlo: forse la moglie non sa niente di questa storia e allora non è il caso di farla preoccupare.
Un istante fa è suonato il cellulare. Pensavo fosse lui, invece era mia moglie che chiedeva se andava tutto bene. E’ terribile, quella donna, sente l’erba crescere. Stiamo insieme da vent’anni e non l’ho mai tradita né ho intenzione di farlo, anche perché sono convinto che, se lo facessi, se ne accorgerebbe la sera stessa. Ho dovuto dirle che Johnny non era ancora arrivato. Mi ha detto di farle sapere.
La pioggia è più intensa, ora. Sui vetri, l’acqua non apre più sentieri unendo gocce distanti l’una dall’altra, ma scorre come un piccolo torrente in piena. La vetrata dà sulla strada, mi sforzo di guardare attraverso il vetro così bagnato e il fitto velo di pioggia che è al di là, ma non riesco a vedere niente. Ogni tanto passa un’auto, e le luci rosse degli stop si sgranano e si rifrangono attraverso l’acqua così da sembrare colorati all’acquerello.
C’è poca gente nel locale. Il gruppetto più numeroso è in una saletta accanto dove c’è il televisore acceso. Lo tengono a basso volume, per fortuna. Quelli seduti ai tavoli sono silenziosi. Bevono vino bianco. Hanno dei berretti di lana in testa, credo siano pescatori. E’ la prima volta che entro in questo bar. Ci vengo di rado al porto. Abito su in paese e se devo dire la verità, nemmeno mi piace tanto il mare. Sono un uomo di terra io, nato in campagna e vissuto lì fino a quando non ho conosciuto mia moglie, che invece è di qui. Io c’ero venuto a lavorare. Non era stata una mia scelta, mi ci avevano mandato. Sono un insegnante. Ho una cattedra di italiano alle medie e mia moglie l’ho conosciuta a scuola. Lei insegna ginnastica. Quando ci siamo sposati, siamo andati a vivere a casa sua. C’erano ancora i suoi, allora, ma la casa era molto grande. Prima stavo a pensione da una vedova, insieme a diversi impiegati.
Scrivendo non mi sono accorto che il tempo passava. La scrittura mi ha preso la mano, come spesso avviene. Questo era solo un esercizio per far passare il tempo dell’attesa, e invece mi accorgo che stavo cominciando a darci dentro sul serio. Ad ogni modo sono ormai le undici e Johnny ancora non si vede. Non posso stare qui ancora a lungo, mi sento un cretino a starmene seduto da solo a questo tavolo. Chissà cosa penseranno di me gli altri avventori. Uno che sta seduto a un tavolo da solo, beve punch al cioccolato e scrive su un piccolo taccuino. Sembrano farsi i cavoli loro, ma sono certo che di sottecchi mi guardano. Devo darmi un tempo limite. Guardo l’orologio. Sono le undici e cinque. Mi sto dicendo che se non arriva per le undici e un quarto
(1998)