Tiziano Scarpa sulla Badessa di Castro

Pubblicato su Il primo amore il 26 ottobre 2023

Roberto Michilli è una risorsa della nostra cultura. Romanziere dallo sguardo umanissimo e capiente, studioso erudito e nitido, negli ultimi anni ha proposto traduzioni e ricerche sulla letteratura russa e francese dell’Ottocento (Lermontov e Flaubert). Ora torna in libreria con una sua traduzione di “La badessa di Castro” corredata da un’ampia analisi della novella di Stendhal. Sul Primo Amore alcuni assaggi del libro. Link nel primo commento. [Tiziano Scarpa]

Federico Migliorati sulla Rivolta decabrista

Il Gazzettino nuovo. 17 settembre 2023.

MICHILLI, LA RUSSIA DEL 1825 E UNA RIVOLUZIONE “MODERNA”, MA IMMOBILE

Set 13, 2023

Se la Rivoluzione bolscevica del 1917 ha avuto un prodromo, per quanto differente negli obiettivi e nei protagonisti, questo fu rappresentato dall’epica e rovinosa sommossa ottocentesca di alcuni ufficiali dell’esercito imperiale che mise in pericolo il potere dell’allora neo zar Nicola I Romanov, da pochi giorni subentrato allo scomparso fratello Alessandro I e dopo l’abdicazione di Costantino. “14 dicembre 1825. La Rivoluzione immobile. Il racconto della rivolta decabrista” (726 pagine, 35 euro) è il titolo dell’ampio testo che Roberto Michilli, romanziere e traduttore, già autore di ponderosi volumi in ambito storico, ha dato alle stampe qualche tempo fa per l’abruzzese Di Felice Edizioni. Nel libro riemerge dai flutti del passato un avvenimento che sconvolse il grande Impero russo del tempo, ancora fortemente innervato di feudalesimo, in cui persisteva la servitù della gleba e i contrasti sociali erano all’ordine del giorno con disparità abissali tra aristocrazia e popolo. Come fu possibile che un gruppo ristretto di nobili e ufficiali, molti dei quali appartenenti all’ambito militare, potesse pensare di scardinare il potere costituito? Grazie ad approfondite ricerche d’archivio, allo studio della corrispondenza degli stessi protagonisti della rivoluzione e a materiale frutto di conferenze e convegni (oltre 150 i titoli contenuti nella bibliografia) è possibile apprendere che il passaggio di mano della corona da Paolo I, despota arretrato e violento, al figlio Alessandro I, inizialmente promotore di importanti riforme sociali, lasciò ben sperare circa un’evoluzione positiva e moderna dell’organizzazione dello Stato, sulla scorta di quanto l’Illuminismo aveva “consegnato” in diversi Paesi europei. I decabristi, come furono chiamati dal nome del mese in cui avvenne la rivolta, quello di dicembre, non puntavano, come sarebbe accaduto poco meno di un secolo più tardi con i bolscevichi, a una lotta di classe bensì all’eliminazione del servaggio, alla modifica del sistema autocratico in uno liberale, all’instaurazione della repubblica o quantomeno di una monarchia costituzionale per arrivare al miglioramento delle condizioni di vita dei più indigenti tramite coraggiose riforme sociali e, tutto ciò, possibilmente senza spargimento di sangue. Una “rivoluzione immobile”, dunque, che fallì per svariati motivi anche se, sostiene Michilli, l’idea iniziale non era impossibile da realizzare: l’assenza di decisioni chiare, una mancata tempestività nell’assalto al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo (allora capitale e sede reale) senza dimenticare l’eccessiva divisione delle società segrete che erano alla base della rivolta, alcune delle quali con programmi decisamente massimalisti, altre più moderate resero evanescente l’ampio dispiegamento di forze. Anche la letteratura non fu “immune” a questi fatti, si pensi al poeta e scrittore Puskin che si avvicinò alle tesi propugnate dai cospiratori, pur non sposandone completamente le finalità. Viene ricostruito inoltre il lungo e travagliato percorso successivo che portò alla condanna di oltre un centinaio di ufficiali, gran parte dei quali condotti ai lavori forzati in Siberia: dalle testimonianze emerge la forza e il coraggio dei prigionieri (e delle loro donne), tenuti in condizioni spesso disumane. Un esempio, il loro, che fu ripreso anche nel Novecento a testimonianza della suggestione scaturita da questo seme di ribellione.

Roberto Michilli su Meer Magazine

Intervista a Roberto Michilli

Michaíl Júr’evic Lérmontov: Dalla fiamma e dalla luce, la vita attraverso le lettere

16 SETTEMBRE 2023, 

EMANUELA BORGATTA DUNNETT

Il Demone esclama: "Lei è mia!", opera di Mihály Zichy

Il Demone esclama: “Lei è mia!”, opera di Mihály Zichy

«Michaíl Júr’evic Lérmontov (1814-1841) è uno dei rari artisti della parola che hanno saputo esprimersi agli stessi livelli di eccellenza nella poesia, sia lirica sia narrativa, nella prosa, nella drammaturgia e nella traduzione». Lo studioso Roberto Michilli inquadra, in brevi righe, lo straordinario talento del letterato russo e ci illustra i momenti salienti della stesura di: “Michaíl Júr’evic Lérmontov – Dalla fiamma e dalla luce La vita attraverso le lettere” pubblicato da Edizioni Di Felice.

«Anima bruciante e giovane. Se io sono la causa dell’infelicità altrui, sono io stesso non di meno infelice». Partendo da due affermazioni di Lermontov stesso, le chiederei quanto si evince del carattere tumultuoso dell’autore dalle lettere da lei tradotte e analizzate. La biografia di Lérmontov è lacunosa. Non sappiamo tuttora dove era e cosa faceva in vari momenti della sua vita, quali erano le sue letture, chi erano i suoi corrispondenti e interlocutori, di cosa parlava con loro. L’uomo rimane per molti aspetti misterioso. Oltre alle proprie opere, ci ha lasciato pochissime altre tracce del suo passaggio su questa terra.

Ci sono arrivati in tutto 54 tra lettere e biglietti scritti da lui, e 10 che lo vedevano invece come destinatario. 11 delle sue lettere sono state scoperte tra il 1928 e il 1962. La sua vita è stata breve, ma intensa e ricca di esperienze, e ciò suggerisce che la corrispondenza a noi pervenuta sia solo una frazione del totale. Va inoltre precisato che queste lettere sono tutte di carattere privato, indirizzate a parenti e amici, e nessuna rivela alcunché in merito alle convinzioni filosofiche e letterarie dell’autore. Le poche lettere che abbiamo a disposizione sono straordinariamente preziose perché, oltre a permetterci di sentire la sua viva voce, ci consentono di ricostruire dal suo punto di vista i momenti salienti della sua breve esistenza e di gettare almeno uno sguardo sulla sua vita interiore, risultando così ben più utili e affidabili di buona parte delle tante memorie dei contemporanei per una seppur parziale conoscenza dell’uomo. In questo epistolario il lettore troverà, oltre alle lettere scritte da Lérmontov, quelle indirizzate a lui e altre intercorse tra corrispondenti diversi nelle quali lo si cita.

Michail Jur’evič Lérmontov si è ritrovato prigioniero di un mito che lui stesso ha contribuito non poco a creare. Formatosi negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento grazie anche a una certa pubblicistica su di lui, semplificato e cristallizzato durante l’epoca sovietica in un canone letterario ufficiale, tale mito ha influenzato la ricerca accademica, portata a ignorare tutto quanto non si adattasse a questa raffigurazione, e il modo di percepirlo da parte dei lettori, ingessandolo in una figura piuttosto unidimensionale, all’incirca così caratterizzata: successore di Byron e Puškin, ma diverso da entrambi, incompreso e penetrante, di finissimo sentire, sensibile ma forzatamente freddo, eternamente sofferente per la perfidia femminile, amante della libertà e della sua patria, anche se verso quest’ultima nutre un amore “strano”, ha compreso e riflesso nella sua opera la propria generazione inerte, ha voluto bene davvero solo alla nonna e a Varvára Lopuchinà, è stato perseguitato dal potere e infine ucciso da Martýnov e dal regime poliziesco di Nicola I.

L’uomo Lérmontoviano così come scaturisce dalle poesie e dalle prose, e il personaggio Lérmontov, visto non solo come poeta e scrittore ma come eroe romantico lui stesso, seduttore spietato e inveterato libertino, hanno finito per nascondere in buona parte l’uomo Lérmontov, come lo possiamo invece conoscere da queste lettere e, in una certa misura, dalle più affidabili tra le memorie di chi lo conobbe, che ci permettono invece di costruirci una sua diversa immagine, più completa, approfondita e articolata, restituendoci un uomo con tutte le sue luci e ombre.

E se lo vedremo assumere pose e mettersi maschere sul volto, vedremo anche come fosse capace, per dirla con Wolf Giusti, di «momenti di straordinaria freschezza e sincerità». Di converso ci accorgeremo che le donne sembrava amarle più nelle poesie che nella vita, perché con diverse di loro fu piuttosto cinico e, per esempio, non esitò a mandare all’aria, volutamente, il matrimonio del suo amico Alekséj Lopuchín con Ekaterína Suškóva. A una principessa che pure amò, o almeno corteggiò, indirizzava non soltanto intense liriche d’amore ma anche un epigramma in cui ne paragonava la faccia a un melone e il culo a un cocomero.

Potremo però constatare che era più incline al riso e agli scherzi di quanto ci venga di solito rappresentato e, grazie a una lettera finalmente pubblicata senza censure, che scrivendo a un amico parlava di sesso e diceva parolacce, vivaddio. Per questo insieme di motivi ho dedicato alle sue lettere una particolare attenzione, traducendole quasi tutte, visto che in Italia se ne conoscevano solo i brevi stralci pubblicati negli studi di Evel Gasparini e Wolf Giusti. A titolo di curiosità, devo dire che l’unica lettera superstite della nonna tra le tante che certo gli scrisse è stata la cosa più difficile da tradurre che mi sia mai capitata, eguagliata soltanto da alcune poesie di Pasternák.

Lei ha curato anche una biografia definitiva di Lermontov. So che conosce l’autore profondamente e mi farebbe piacere illustrasse i fatti che l’hanno maggiormente sorpresa durante il percorso di ricerca per la stesura dei volumi.

In realtà non ci sono state grosse sorprese perché nel momento in cui ho iniziato la stesura della biografia sapevo tutto, o quasi, sulla vita e sull’opera di Lérmonov. Ho letto per la prima volta il suo romanzo “Un eroe del nostro tempo” nell’adolescenza, e mi ha colpito ed emozionato al punto che l’ho riletto più volte e ho cominciato a interessarmi delle altre opere e della biografia dell’autore. Ho continuato a farlo anche nell’età matura e ho finito per dedicargli tre libri e dieci anni della mia vita. Lérmontov è diventato così un caro amico per cui nutrivo e nutro profondo affetto e immensa ammirazione.

Quali sono state le maggiori difficoltà nell’affrontare una traduzione complessa come questa? Premetto che buona parte delle lettere raccolte in “Dalla fiamma e dalla luce” le avevo già tradotte per la biografia. Mi sono accorto subito, però, che lì si confondevano col resto del materiale e perdevano la loro forza e la loro unicità come veicoli della voce di Lérmontov e dei pochi che davvero gli vollero bene.

Così ho avuto l’idea di pubblicarle tutte insieme, in ordine cronologico, e ho visto subito che in questo modo recuperavano tutta la loro forza e con le note a servizio di ogni lettera scrivevano una nuova biografia, più semplice e diretta e anche più piacevole da leggere. Per completare l’epistolario di Lérmontov, in questo nuovo libro ho inserito 5 lettere in precedenza tralasciate e tradotto integralmente altre 11 di cui nella biografia avevo utilizzato solo brevi stralci o traduzioni parziali. Va però detto che prima di scrivere la biografia avevo tradotto tutte le liriche della maturità di Lérmontov e una selezione di quelle giovanili, per un totale di 60 poesie, 37 delle quali tradotte per la prima volta in italiano.

Direi che le difficoltà maggiori le ho avute con queste ultime. Il libro ha ricevuto la Menzione d’onore all’ottava edizione (2014) del prestigioso Premio internazionale “Russia-Italia. Attraverso i secoli.” La giuria composta da cinque eminenti slavisti italiani (Vittorio Strada pres., Cesare G. De Michelis, Stefano Garzonio, Fausto Malcovati e Serena Vitale) ha espresso la seguente motivazione: «L’antologia Lérmontoviana approntata da Roberto Michilli è la più ampia raccolta italiana del grande Poeta russo dopo quella curata da Tommaso Landolfi e comprende 60 testi; la versione è accompagnata da un amplissimo commento. Il maggior merito di questo tributo alla poesia di Lérmontov (di cui quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario) risiede nella qualità delle versioni, condotte sempre su un registro liguistico moderno ma espressivamente fedele all’originale». Parole che ogni traduttore vorrebbe sentirsi dire, e che per quanto mi riguarda sono state la migliore ricompensa ai sacrifici, alle tante difficoltà superate e all’immenso lavoro svolto.

Da anni mi appassiona il “Démone” con le sue molteplici stesure, accompagnato dalle mirabili illustrazioni del pittore Vrubel. Che ruolo hanno avuto questi ripensamenti nella fulminea carriera letteraria di Lérmontov e perché, a suo avviso, sentì la necessità di rivedere il testo più volte? Il “Démone” accompagna Lérmontov per tutta la sua vita di poeta. Comincia a lavorarci nel 1829, a quindici anni, e continua fino agli ultimi giorni.

Se ne conoscono otto redazioni di cui una, la settima, non è arrivata fino a noi, ed è solo da quella del 1838 che l’ambientazione si precisa: mentre nelle prime versioni era un paese meridionale vagamente indicato, a partire dal 1838 nel poema irrompono il Cáucaso, la Georgia, i costumi georgiani e tanti particolari che contribuiscono a dargli la concretezza di un luogo reale. Segno anche questo della nuova visione realistica che si manifesta nell’attività creatrice del Lérmontov maturo, il quale ricorre qui alla sua esperienza personale del Cáucaso, risalente ai viaggi dell’infanzia e arricchita dal suo lungo vagabondare nella regione durante l’esilio del 1837.

L’amore di un démone per una donna mortale era già stato espresso più volte nella letteratura romantica europea: in Cain e Heaven and Earth di Byron; “Love of Angels” di Thomas Moore ed “Eloa” di Alfred de Vigny. La figura di Satana era centrale nell’immaginario dei poeti romantici, perché consentiva loro di esprimere il disagio, l’insoddisfazione e lo spirito di rivolta contro la società in cui vivevano e perfino contro se stessi.

Le opere citate hanno però ben poco a che fare col «triste démone» di Lérmontov, personaggio originale, di straordinaria potenza drammatica, protagonista di un poema il cui significato simbolico è intimamente connesso con la più profonda natura del suo autore, così come totalmente ed esclusivamente Lérmontoviano è lo scenario caucasico nel quale la vicenda si svolge. Come scrive Eridano Bazzarelli, il “Démone” di Lérmontov «non nasce dalla lettura di altre opere, anche se il suo poema si inserisce benissimo nel filone della letteratura ribellistica e satanica dell’epoca. Così il suo Cáucaso non nasce dall’imitazione di Puškin, ma dalla propria esperienza personale». Nel corso degli anni, Lérmontov sottopone il poema a una lunga serie di revisioni senza trovare una forma definitiva e convincente e, pur avendone la possibilità, decide di non pubblicarlo, neanche in estratti che avrebbero potuto aggirare i divieti della censura. La sua lunghissima gestazione lo trasforma in una sorta di palinsesto di scritture e idee via via modificate, aggiornate, superate.

Probabilmente terminato alcune settimane prima dell’ultima revisione apportata al “Démone, Mcýri (Il novizio)” è senza dubbio il frutto più maturo di Lérmontov, ormai all’apice della sua consapevolezza artistica, nell’ambito della narrazione in versi, un genere fondamentale per lui e per la sua epoca, e del quale “Mcýri” rappresenta il canto del cigno. Guardando in prospettiva a questi versi, è infatti evidente come Lérmontov chiuda con essi un’epoca, o meglio regali un’estrema luminosa fioritura all’età d’oro della poesia russa, che si era già conclusa all’inizio degli anni Trenta. Dopo Mcýri Lérmontov lavorerà ancora all’ultima revisione del “Démone” e a “Una favola per bambini”, ma del primo non sarà mai pienamente soddisfatto, mentre il secondo resterà incompiuto, a testimoniare il tramonto della lunga stagione del poema, e l’urgenza di trovare nuove forme narrative per rispondere ai tempi nuovi che s’annunciavano. E proprio a Lérmontov spetterà il compito, con “Un eroe del nostro tempo”, di indicare l’avvento di un’era altrettanto gloriosa per la letteratura russa, quella dei grandi romanzi.

Il poema venne pubblicato in Russia solo nel 1860, ed ebbe grande popolarità nella seconda metà dell’Ottocento e oltre perché intorno al giro di secolo, la poetica dei simbolisti aveva risvegliato l’interesse per il romanticismo. Il “Démone” ispirò anche opere di altri artisti. Antón Rubinštéjn nel 1871 compose un’opera con lo stesso titolo su libretto di Pável Viskovátov, il primo biografo di Lérmontov, mentre il grande pittore Michaíl Vrúbel’, affascinato dalla figura del Démone, eseguì una serie di famose tele ispirandosi al poema.

Mi farebbe, altresì, piacere che illustraste i presupposti della Collana inaugurata da queste Lettere, possibilmente facendo riferimento a progetti presenti e futuri. Il titolo della collana è un omaggio a Giuseppe Pontiggia e al suo libro sui classici: I Contemporanei del Futuro (1998). «Un classico è un’esperienza radicale, che ci modifica» scrive Pontiggia. E ancora: «La contemporaneità non esiste. Non esiste, dopo la Relatività, nella fisica, e non esiste, dopo la Storia, nell’arte. Che i classici siano nostri contemporanei è un conforto idealistico e una menzogna pubblicitaria. «Questa però non è una conclusione, ma una premessa. L’esperienza dei classici ci dice il contrario. Non sono nostri contemporanei, siamo noi che lo diventiamo di loro. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro.»

C’è nelle pagine di Pontiggia la forte preoccupazione che il superamento della tradizione umanistica conduca al superamento dei valori. Una deriva che questo classico della contemporaneità vuole assolutamente evitare, invitandoci ad avvicinare i classici, non piú modelli è vero, ma ancora vitali, ancora pieni di sapienza imprevista. Invitandoci a «farci noi contemporanei dei classici individuando in essi una riserva di quei valori di cui il nostro mondo sembra carente.» È quanto Valeria Di Felice e io come direttore della collana ci proponiamo di fare offrendo ai lettori, in nuove traduzioni col testo originale a fronte, classici stranieri sconosciuti, poco conosciuti o dimenticati, oppure celebri ma appannati da traduzioni non all’altezza. Accanto a questi, testi italiani di fine Ottocento e inizio Novecento che meritano di essere valorizzati.

Di prossima pubblicazione, presumibilmente nell’autunno di quest’anno e nella primavera del prossimo, sono: Stendhal, “La badessa di Castro”, cura e traduzione di Roberto Michilli; Stendhal, “Vanina Vanina”, cura e traduzione di Paola Tiberii; Theodor Storm, “La signora delle piogge”, traduzione e saggio critico di Isabella Horn. Per quanto riguarda i progetti futuri, Valeria di Felice sta iniziando a tradurre le “Melodie ebraiche” di Byron, e successivamente tradurrà un secondo libro di Anna de Brémont. Paola Tiberii ha già iniziato a tradurre una selezione dei racconti di Hemingway, i sette che l’autore stesso dichiarò di preferire nella prefazione ai “49 racconti”.

Io ho in corso la traduzione dei “Cenci” di Stendhal, delle “Lettere portoghesi” di Gabriel-Joseph de Lavergne, conte di Guilleragues, e delle “Memorie” di Maríja Nikoláevna Raévskaja, principessa Volkónskaja, che dopo il fallimento della rivolta decabrista del 14 dicembre 1825, eroicamente seguì nell’esilio in Siberia il marito Sergéj Volkónskij lasciandoci questa straordinaria testimonianza sulla vita dei rivoltosi condannati ai lavori forzati e all’esilio a vita. Non sono mai state tradotte fuori della Russia.

Anna Fusaro sulla Rivoluzione immobile

«il Centro», sabato 31 dicembre 2022

14 dicembre 1825, Michilli tra i moti liberali in Russia

Fascinose avventuriere, spie, guasconi, cospiratori, poeti che finiranno impiccati per amore di libertà: è un avvincente romanzo storico d’avventura il nuovo libro di Roberto Michilli “14 dicembre 1825. La rivoluzione immobile. Il racconto della rivolta decabrista”, Di Felice Edizioni. Hanno la sapienza del libro di storia e il potere seduttivo del romanzo le pagine dell’autore abruzzese (di Campli), che, profondo conoscitore della storia e della letteratura russa, racconta la parabola del movimento decabrista (da dekabr’, dicembre in russo) nella Russia zarista. Il 14 dicembre 1825 a San Pietroburgo esplose il moto di rivolta delle società segrete, composte da aristocratici, borghesi, ufficiali dell’esercito imperiale. L’insurrezione fallì, sedata dal nuovo zar Nicola I, che fece impiccare i capi e  deportare circa 600 persone in Siberia. Tra combattimenti e duelli, fortezze e prigioni, cospirazioni e balli a corte, Michilli racconta la nascita delle idee liberali in Russia, la genesi delle società segrete come reazione all’immobilismo dello zar Alessandro I, la rivolta del 14 dicembre e quella in Ucraina, il processo e le condanne dei decabristi, la loro vita in Siberia con le coraggiose mogli, l’influsso della loro presenza sullo sviluppo della regione. Romanziere, poeta, saggista, autore di una pregevole trilogia sul poeta Lermontov (che ha tradotto dal russo) Michilli dipinge un affresco storico della Russia e indaga i rapporti tra decabristi e letterati, in particolare il poeta Puškin. Nel libro la prima traduzione italiana delle memorie della principessa Volkonskaja.

Sono grato ad Anna Fusaro e Lalla D’Ignazio.

Leandro Di Donato sulla Rivoluzione immobile

ROBERTO MICHILLI

14 Dicembre 1825

La rivoluzione immobile.

Il racconto della rivolta decabrista.

Il nuovo libro di Roberto Michilli, 14 Dicembre 1825. La rivoluzione immobile. Il racconto della rivolta decabrista, Di Felice Edizioni, 2022, è, come tutti i suoi precedenti lavori, davvero importante perché permette al lettore italiano di conoscere, in modo esaustivo, pagine cruciali della storia russa ed europea. La prima riflessione che vorrei proporre è che questo volume è una conferma e, insieme, una sorpresa; conferma perché vi troviamo un metodo di ricerca che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare nei suoi precedenti studi dedicati a Lérmontov e Flaubert, e che sono ormai la sua cifra di ricercatore e studioso; una sorpresa perché la lettura è un viaggio dentro mondi sorprendenti, in cui lo stupore di nuove scoperte regala la gioia autentica di nuovo sapere. Ma questo libro è davvero uno scrigno: ci sono almeno una decina di personaggi che meriterebbero un libro a parte, e vicende o aspetti il cui racconto potrebbe riempire intere serate. Roberto Michilli, con una capacità che va sempre sottolineata, riesce a portare il lettore fin dentro le pieghe più nascoste degli accadimenti e a rendere la complessità e la ricchezza dei contesti storici, sociali e culturali con una levità e una grazia di scrittura che rende la lettura agevole e piacevole. Nella premessa l’Autore ricorda che aveva trattato diffusamente della rivolta decabrista nella prima stesura della biografia di Lérmontov ma poi, per non appesantire un testo di circa 800 pagine, questa parte fu espunta. Inoltre, i pochi testi italiani dedicati a questo tema non sono più reperibili; questo lavoro, quindi, colma un vuoto e offre un nuovo contributo di conoscenza. Ancora una notazione di carattere generale e, per così dire, introduttiva: come nei lavori precedenti Roberto Michilli intreccia documenti tradotti da lui per la prima volta in italiano, analisi di studi russi ed occidentali, fonti letterarie, un ricco ventaglio di riferimenti bibliografici e notizie storiche, di vicende europee ed extraeuropee, che consentono di avere una visione globale degli eventi. A buona ragione, quindi, questa è quel che si dice una “grande opera” che qualifica non solo un catalogo editoriale ma arricchisce la cultura italiana ed europea. Ma qual è dunque l’oggetto della ricerca e di quale rivoluzione parliamo? Per rispondere a questa domanda, prendiamo le mosse dall’incipit – formidabile – che è anche la premessa storica agli avvenimenti che seguirono: «Lo zar Alessandro Pávlovič Románov mori a Tanganórg, sul Mar d’Azov, il 19 novembre 1825» e «La notizia della sua morte arrivò a San Pietroburgo il 27 novembre». La morte fu causata da un malanno, contratto a Sebastopoli, manifestatosi prima con un brutto raffreddore e poi con l’insorgere di febbri che segnalavano un aggravamento contro cui nulla poterono fare i medici.  Lo zar Alessandro I, succeduto al padre Paolo I, ucciso nel 1801 da una congiura di palazzo, aveva inizialmente suscitato grandi aspettative e il suo regno sembrava promettere, finalmente, cambiamenti e decisioni coraggiose per superare le tante arretratezze e chiusure che caratterizzavano l’impero. Fra queste, particolare rilevanza avevano una burocrazia ottusa e impermeabile ad ogni tentativo di riforma, l’autocrazia e la servitù della gleba. Per comprendere la vastità di quest’ultima condizione, basti pensare ai numeri che l’Autore riporta: nel 1861, quando fu abolita, vi erano circa 52 milioni di contadini, di cui 20 milioni di servi di proprietari privati, su una popolazione di 74 milioni di abitanti. Nel suo regno, scrive Michilli, si possono distinguere due periodi di aperture liberali, il primo dal 1801 al 1805 e il secondo dal 1807 al 1812, entrambi chiusi da una guerra contro la Francia. Le pur timide aperture iniziali non incisero in modo significativo sulla condizione generale del Paese, e le speranze originatesi declinarono in fretta. In questo quadro, le guerre napoleoniche furono l’innesco di un lungo processo di maturazione, culturale e politica, che coinvolse gli ufficiali russi appartenenti, in gran parte, alla nobiltà e, spesso, a quella più alta. In particolare, la grande campagna militare del 1813-1814, fu anche una sorta di grande viaggio che permise ad un gran numero di nobili russi, come mai prima, di uscire dal Paese, di conoscere modi vita, mentalità, istituzioni e società europee, aprendo uno squarcio fecondo nella visione di quei giovani e giovanissimi ufficiali. Tornati in patria vissero l’impatto con una realtà che appariva non più tollerabile, così come lo era veder trattare come una proprietà assoluta persone con cui si era combattuto, fino a poco tempo prima, fianco a fianco, accomunati dalla quotidianità delle campagne militari e dai pericoli delle battaglie. Le cocenti delusioni inflitte ai tanti che avevano guardato ad Alessandro I come ad un sovrano illuminato, la realtà russa vista con occhi nuovi, le ansie di rinnovamento, le nuove possibilità offerte dalla visione liberale spinsero molti ufficiali a dar vita a delle società segrete, per discutere programmi, riforme e azioni. Per la verità, ricorda l’Autore, società di questo genere esistevano fin dal 1814, così come le logge massoniche. Ma se è vero che molti dei protagonisti della rivolta decabrista erano, o erano stati, massoni e le società da loro fondate si ispiravano a queste esperienze, in realtà esse furono, profondamente diverse. Le Società decabriste principali furono quelle denominate, dagli studiosi, del Nord a Pietroburgo, del Sud, che includeva i consigli di tre piccole città dell’Ucraina e, la più democratica di tutte, La Società degli Slavi Uniti, che non includeva, a differenza delle altre due, l’élite militare appartenete all’alta nobiltà, ma era composta dagli ufficiali più giovani dell’esercito e non della Guardia imperiale. I decabristi, ecco un primo fondamentale punto, rappresentano la prima generazione russa pronta ad abolire i propri privilegi. Non mettono in discussione solo astratti principi, propugnano programmi che incidono sulle condizioni materiali del popolo e delle loro famiglie, di cui avrebbero ereditato le cospicue fortune, e sull’assetto della società e dello stato. Qui risiede il nucleo centrale delle loro riflessioni e, anche, la spinta morale e ideale che anima il loro movimento e plasma le loro proposte: abolizione della servitù, riduzione dei 25 anni di servizio per i soldati e riforma dell’arruolamento, adozione di una costituzione da cui far discendere un nuovo quadro legislativo, un parlamento eletto con un esercizio molto ampio del voto. Una delle questioni più dibattute riguardava la forma dello stato, monarchia costituzionale o repubblica, tema affrontato, con esiti diversi, anche dalle quattro principali società pre-decabriste, di cui l’Autore fornisce ampie e approfondite notizie. Michilli, inoltre, sottolinea come, altro elemento caratterizzante, i decabristi non fossero affatto ossessionati dall’idea della rivoluzione, né la vedevano come unico mezzo per realizzare le riforme e le trasformazioni sociali che auspicavano. Se lo zar Alessandro I avesse davvero fatto quelle riforme o, quantomeno, avesse avviato un processo in tal senso ne sarebbero stati entusiasti sostenitori. I decabristi, pur mossi dalle stesse motivazioni di fondo, tuttavia, non avevano una ideologia condivisa come collante, né avevano tutti le stesse idee su singoli punti o su come gestire l’esito vittorioso della rivolta. Un aspetto importante, che Michilli ricostruisce con grande attenzione, è quello relativo all’apporto della poesia e della letteratura alla causa decabrista. In questo contesto, occorre almeno segnalare La libera società degli amanti della letteratura russa, che nel 1819, si trasforma in una sorta di “falange” di giovani letterati di sinistra, e citare i due soli letterati organici al movimento decabrista, Kjuchel’béker e Ryléev. Una citazione a parte merita Púškin, per il suo ruolo in queste vicende e per il valore assoluto delle sue opere; figura che Michilli ci restituisce in pagine dense e appassionanti. La morte improvvisa dello zar Alessandro I prende tutti di sorpresa, e qui Michilli affida il racconto a due distinti fili narrativi, fili che poi si intrecceranno nel punto di caduta della vicenda: da una parte la corte alle prese con i problemi della successione, poi risolti con la rinuncia di Costantino e l’ascesa di Nicola e, sul lato dei decabristi, che avevano progettato per anni la rivolta e, alcuni, vagheggiato perfino il regicidio di Alessandro, l’affanno delle discussioni sul che fare di fronte al precipitare degli eventi e alla fase di interregno che si era aperta.  Si arriva così alla mattina del 14 dicembre 1825 che vedrà, nelle quattro piazze di Pietroburgo, piazza del Senato, piazza di Sant’Isacco, piazza dell’Ammiragliato e piazza Razvódnaja (piazza Palazzo) prendere corpo la rivolta tanto volte evocata e il suo rapido epilogo negativo. Michilli costruisce un montaggio quasi cinematografico degli eventi: vediamo, letteralmente, le pagine animarsi e gli scenari prendere forma. Una lettura appassionante, dal ritmo incalzante, resa ancora più emozionante dalla ricchezza delle descrizioni e dei particolari. Incertezze ed errori di strategie e di tattica,  comportamenti incoerenti, defezioni di importanti figure di ufficiali, punti di riferimento insostituibili del movimento, e fra questi quella, determinante, del principe Sergéj Trubeckój, destinato ad assumere il ruolo di dittatore per traghettare il vecchio ordine verso quello nuovo, fecero sì che si creasse quella situazione di immobilità delle truppe schierate nella piazza del Senato, piazza in cui era affluita una gran folla di operai e artigiani – la rivoluzione immobile appunto – rotta poi dalle mitraglie dei reggimenti di Nicola I che portarono rapidamente alla disfatta dei rivoltosi. Tutto si consuma in poche ore, dalle 11 alle 18, bruciando così oltre dieci anni di cospirazioni e progetti. Va sottolineato che i decabristi non avevano voluto coinvolgere il popolo, sia per paura di innescare dei moti di rivolta che potevano rapidamente sfuggire di mano, sia per evitare un bagno di sangue di grandi proporzioni, Erano infatti convinti che i corpi militari, in cui occupavano posti preminenti quando non apicali di comando, avrebbero seguito le loro disposizioni e tutto si sarebbe risolto, anche grazie all’adesione di tanti soldati di altri reggimenti, con scontri limitati fra truppe. Va aggiunto che nei mesi che precedettero la rivolta, molte spie e infiltrati avevano comunicato ai vari comandi non solo l’esistenza della società e gli scopi che si proponeva di raggiungere, ma anche l’elenco di molti degli aderenti. Dopo la sconfitta, altri membri, fino ad allora entusiasti partecipanti, si consegnarono alle autorità, ben prima che fossero inquisiti, facendo, in alcuni casi, i nomi degli altri associati. La rivolta si risolse in un completo fallimento e. per le autorità fu molto facile procedere all’arresto rapido di pressoché tutti gli affiliati. Intanto, i membri della Società del Sud attendevano con trepidazione notizie sugli esiti della rivolta di Pietroburgo e questa incertezza alimentava, a sua volta, altra incertezza sul da farsi, creando anche in questo caso una sorta di immobilità. Ma poi le informazioni cominciarono ad arrivare e, anche qui, molti – conosciuto l’esito infausto –  cominciarono a defilarsi e a ritirarsi. L’arresto dei capi della Società, i cui nomi erano ormai tutti noti, determinò, la mattina del 29 dicembre 1825, la rivolta dei decabristi del sud ad opera del reggimento Černígovskij. Questa sollevazione durerà più a lungo, fino al 3 gennaio 1826, ma non preoccupò molto le autorità perché, a differenza della prima di cui non conoscevano la reale entità, questa fu circoscritta a quel solo reggimento, perché ufficiali decabristi di altri reggimenti rifiutarono di aderirvi. Anche in questo caso vi furono errori, diserzione di soldati e comportamenti non sempre adeguati da parte dei rivoltosi. Michilli ci fornisce un racconto dettagliato, impreziosito da mappe e cartine – come nel caso della rivolta di Pietroburgo – che ci consente di vederne gli sviluppi passo dopo passo, fino alla sconfitta degli insorti. Alla fine, furono arrestati più di tremila soldati e 500 ufficiali. Non essendoci un Codice penale e non potendo applicare le sanzioni, molto cruente, previste in quello di Ivan il Terribile, fu prima nominata una speciale Commissione d’indagine e poi una apposita Corte Suprema per emanare le condanne. Michilli, molto opportunamente, sottolinea come i membri di questi due organismi fossero appartenenti alla stessa classe degli imputati e come gli uni e gli altri si fossero formati nelle stesse accademie e scuole e avessero frequentato gli stessi ambienti.  I capi della rivolta affrontarono, nella quasi totalità dei casi, la prigione, gli interrogatori e poi la pena con grande dignità e coraggio, assumendosi le responsabilità e rivendicando la giustezza delle loro idee.  Il 9 luglio 1826 fu emessa la sentenza ed inoltrata allo zar per una eventuale riforma della stessa. Delle 579 persone giudicate, 290 furono prosciolte, 134 furono ritenute colpevoli di reati minori e 121 riconosciuti come rivoltosi maggiormente responsabili; 5 di questi furono impiccati e gli altri, dopo aver perso i gradi e la nobiltà, furono condannati ai lavori forzati e alla deportazione in Siberia. Questa operazione che durò due anni, dal 1826 al 1828, fu una vera e propria epopea a cui Henry Troyat dedicò La gloria dei vinti, uno dei cinque romanzi del ciclo La luce dei giusti. I condannati affrontarono con grande dignità e coraggio le dure condizioni di carcerazione e di lavoro nelle miniere. Due donne davvero eccezionali, Catherine Trubeckój e Marie Volkónskij, riuscirono nell’impresa, quasi impossibile, di ottenere dallo zar il permesso di raggiungere i loro mariti in Siberia, facendo così anche da apripista alle altre mogli. Il coraggio e lo spirito di sacrificio di queste donne, che per condividere la sorte dei loro uomini, rinunciarono agli agi e alle ricchezze della loro condizione, affrontando pericoli e privazioni di ogni genere, è stato giustamente celebrato dalla letteratura e dalla storia. In questo senso le Memorie della principessa Maríja Nikoláevna Volkónskaja – tradotte integralmente per la prima volta da Michilli dal russo e pubblicate per la prima volta fuori dalla Russia in questo libro –costituiscono un documento di straordinario valore umano e storico. La permanenza dei decabristi in Siberia, nei circa quaranta anni di esilio, fino all’amnistia concessa dallo zar Alessandro II il 26 agosto 1856, fu, paradossalmente, una loro vittoria. Non solo non furono vinti dalle avversità e dalle iniziali diffidenze e ostilità, ma riuscirono a lasciare segni di cambiamento indelebili: nei villaggi scuole, assistenza medica, nuove tecniche di coltivazione in agricoltura, e nelle città, in particolare, anche circoli culturali e politici. Furono sconfitti sul campo, ma le loro idee, raccolte nelle deposizioni rese nel corso degli interrogatori, finirono per costituire un programma a cui hanno attinto – ovviamente in piccolissima parte – coloro che li avevano condannati. Rimane una domanda, anzi ne rimangono due; potevano vincere e, se avessero vinto quale corso avrebbe potuto prendere la storia russa ed europea? Michilli passa in rassegna tutti i nodi di questi dilemmi, offrendo non solo osservazioni acute e illuminanti, ma anche un grande ventaglio di opinioni. Furono sconfitti sul campo, ma da quella sconfitta nacque un mito che continua e si generò un lievito di idee e di aspirazioni che percorse tutta la storia successiva della Russia, fino alla Rivoluzione d’ottobre del 1917 e oltre, alimentando uno specifico e ricchissimo filone di studi di cui questo libro ci offre una straordinaria testimonianza. A lettura finita ci si accorge che ogni pagina è necessaria, che ogni notizia, ogni riferimento, ogni biografia, ogni racconto, ogni fonte è indispensabile perché ogni elemento concorre alla definizione e alla precisione di un grande affresco, in cui anche il dettaglio è essenziale e senza il quale il quadro generale ne risulterebbe gravemente impoverito. E una storia, una storia come questa, ha bisogno, per essere compresa, dell’apporto corale di tutti i protagonisti, piccoli e grandi, perché quello che Roberto Michilli restituisce è davvero il racconto di una grande epopea e questo libro è, anche, un grande romanzo epico. Anche per questo, a dispetto della mole, la lettura scorre via con grande agilità, come le note sullo spartito di una sinfonia ben orchestrata. Si esce da questa lettura soddisfatti e grati perché Roberto Michilli è riuscito ad appagare ogni curiosità, a illuminare ogni nesso a dar conto di ogni snodo e delle conseguenze generali determinate dal coraggio e dalla pavidità dei protagonisti e dei comprimari, con un linguaggio scevro da ogni compiacimento o autoreferenzialità ma, come sempre, limpido e al servizio del lettore. Per questo, anche per questo, ogni suo nuovo libro è una nuova festa per i lettori.

La rivolta decabrista sul Primo amore

Il movimento e la rivolta decabrista, eventi fondamentali per la Russia dell’epoca (e non solo), sono poco studiati in Italia e di conseguenza mal conosciuti. Roberto Michilli vi ha dedicato molti anni di studi, che condensa in questa ricostruzione solida e narrativamente appassionante, ricca di materiali inediti nel nostro paese.